Prima persona singolare e tempo presente impegnano il lettore a un'accoglienza partecipata - di Riccardo Pontegobbi
In quel romanzo [Bobby Z] ho imparato a usare il tempo presente: prima scrivevo al passato e mi annoiavo da solo, si figuri il lettore. Poi ho provato con il presente, che è come il jazz, improvvisazione. Invece che guardare un tavolo e descrivere che cosa c’è sopra, è come vedere quello stesso tavolo capovolgersi davanti ai miei occhi. Fu una vera rivoluzione e credo abbia cambiato per sempre il mio modo di scrivere.
Don Winslow (Tuttolibri, 4.12.2021, p. iii)
Prima persona singolare
Quando, nel 1669, Gabriel-Joseph de Lavergne, conte di Guilleragues, pubblica il romanzo epistolare Lettere di una monaca portoghese, probabilmente non si aspetta di diventare un prototipo letterario, anche se l’elemento di stile che fa della sua opera uno dei primi grandi successi della letteratura francese, ovvero l’uso della narrazione appassionata e piuttosto verosimile affidata alla prima persona, di fatto lo renderanno tale. Doveroso omaggio, questo, agli aspetti di modernità che la scelta ha implicato sul fronte della strategia comunicativa affidata al “chi parla”, alla voce narrante, prima di venire ai nostri tempi per guardare alla contemporanea letteratura per ragazzi, che non disdegna di esprimersi, sempre più di frequente, attraverso la narrazione in prima persona, in particolare quando dà voce a protagonisti adolescenti e giovani adulti, fenomeno per la cui conferma statistica rimandiamo al box di approfondimento pubblicato in appendice alla fine dell'articolo. Se poi verifichiamo, soprattutto negli ultimi anni, come questa tendenza sia spesso coniugata dal tempo verbale del presente indicativo, si aprono scenari interessanti anche rispetto al tema del “tempo” sviluppato in questo numero, scenari che proveremo ad affrontare tenendo però ben presente, nel condividerla appieno, un’avvertenza di Cesare Segre, secondo il quale ogni classificazione per genere e ogni astrattizzazione legata alla scelta da parte dell’autore dei tempi verbali e del pronome rischia di essere solo un gioco letterario, in quanto ogni romanzo ha singolarmente in questa scelta il suo hic et nunc.[i]
A richiamare l’attenzione di molti autori sull’efficacia dell’uso della prima persona e di un tempo in presa diretta fin dal primo scorcio degli anni Duemila, quando la riconfigurazione della produzione letteraria per giovani lettori ha assunto una precisa direzione e una forte intensità intermediale, ha sicuramente giocato un ruolo l’irrompere sulla scena letteraria di bestseller globali quali Hunger Games e Divergent, romanzi non a caso diventati elementi di culto nell’ambito di un circuito comunicativo in cui i rimandi dal testo narrativo al cinema, dai giochi elettronici a internet e più avanti ai social media, hanno assunto le caratteristiche di un linguaggio a dilagante egemonia culturale.
È l’oggi, l’ora, il qui, fin dall’incipit degli Hunger Games, a segnare la strada su cui Katniss condurrà il lettore per molte pagine e diversi volumi: “Quando mi sveglio, l’altro lato del letto è freddo. Allungo le dita per cercare il calore di Prim, ma trovo solo la tela grezza della fodera del materasso. Avrà fatto un brutto sogno e si sarà infilata nel letto della mamma. Ma certo. Oggi è il giorno della mietitura”.[ii] Gli fa eco la descrizione della cerimonia mattutina del taglio dei capelli della sedicenne Beatrice, protagonista di Divergent, nel giorno del test attitudinale che rivelerà a quale delle cinque fazioni, in cui è suddivisa Chicago, la ragazza sarà destinata.[iii] Ma, anche, lo stupore del Ragazzo Pesce, mentre sulla spiaggia deserta si fa domande sull’incontro appena avvenuto in acqua con una “COSA che parla”, proprio a lui, “Billy Shiel e quelle domande senza risposta sono le mie, perché è di me che stiamo parlando. Proprio adesso. Proprio qui: sulla spiaggia di Stepson. Potete vedermi oltre la linea degli scogli. Sono quello con la pelle d’oca. Quel puntino in mezzo alla sabbia con i pantaloncini da bagno blu”.[iv] Da qui in avanti voce narrante, modalità, punto di vista e prospettive di focalizzazione, non avranno altro Dio all’infuori di Katniss, Beatrice e Billy.
Nel cuore del complesso meccanismo che è la comunicazione letteraria, la scelta di abbandonare la strada della narrazione extradiegetica, caratterizzata dall’onniscienza del narratore (adottata, ad esempio, fino agli Hunger Games da Susanne Collins)[v], ha precise conseguenze, non ultima quella di ottenere un più forte coinvolgimento del lettore implicito, in questo caso il giovane coetaneo del protagonista, che viene messo in grado di vedere le cose come le vede il personaggio, immergendolo nella stessa visione. Immersione e mimetismo caratterizzano ogni passo dei romanzi citati dando la sensazione al lettore di partecipare alla storia, quasi in modalità di inquadratura soggettiva cinematografica. Come nel caso di Todd e della sua lingua inventata con esemplare coerenza mimetica da Patrick Ness in Chaos.[vi] Non per niente questi, come altri romanzi contemporanei, si sono prestati perfettamente a diventare sceneggiature e a finire con immutato grande successo sul grande schermo.
L’operazione, naturalmente, ha anche i suoi detrattori, che più dei pregi ne accentuano limiti e rischi. Il critico inglese James Wood è tra questi; nella sua serrata analisi del tema dell’onniscienza non manca di rilevare come questa sia “quasi impossibile. Non appena qualcuno racconta una storia su un personaggio, la narrazione sembra volersi piegare per avvolgerlo, volersi fondere con quel personaggio, assumere il suo modo di pensare e parlare”.[vii] A entrare nel personaggio, nel caso dell’uso della terza persona, si presta lo “stile indiretto libero” o “terza persona ravvicinata” attraverso cui, per Wood, è possibile “vedere con gli occhi e il linguaggio del personaggio, ma anche attraverso gli occhi e il linguaggio dell’autore”.[viii] Abitare, quindi, nello stesso tempo onniscienza e parzialità. Metodo, questo, che nella letteratura per l’infanzia trova ampia accoglienza, quando è necessario, dice Wood, consentire a un bambino o a chi per lui, per esempio un animale, di vedere il mondo con occhi limitati, avvertendo però il lettore più adulto di tali limiti. Insomma un modo per abitare la confusione del personaggio. Ma è nel racconto in prima persona — intrinseco nel progetto narrativo contemporaneo, per evocare un “linguaggio svilito”, che il personaggio potrebbe usare — che il critico inglese diventa tranchant, definendo questa modalità espressiva “in genere, una beffa bella e buona”. Quando “la voce di un personaggio pare impossessarsi sediziosamente dell’intera narrazione … l’io narrante finge di parlarci, mentre in realtà è l’autore che ci scrive, e noi siamo ben contenti di stare al gioco. Persino i narratori di Faulkner in Mentre morivo suonano assai poco simili a bambini o ad analfabeti”.[ix] Opinioni, queste, interessanti e discutibili, come lo sono tutte quelle che si producono discettando su una materia così fluida, nella quale l’ormai proverbiale “sospensione di incredulità” da parte del lettore e la conseguente immedesimazione empatica con i personaggi non può prescindere da una certa misura di mimesi narrativa, e dove le risorse, le abilità linguistiche e stilistiche di un autore fanno la differenza tra opere creative e dozzinali. Nell’ambito di una tecnica che si presta a infinite variazioni segnaliamo, ad esempio, un uso avanzato del discorso indiretto libero, sposato alla presa diretta del tempo presente, attraverso l’adesione, o ancor meglio l’immersione, del narratore extradiegetico nel punto di vista dei personaggi principali, i tre fratelli Sélavy e l’amica Lucille, segnalati a buon servizio del lettore anche nell’icona che apre ogni capitolo. È il caso del recentissimo romanzo di Lucia Perrucci,[x] nel quale si realizza, pur nel contesto di una precisa scelta di campo che schiera l’autrice dalla parte di un gruppo coeso di personaggi, una visione a prospettiva multipla che arricchisce di colore la già consistente palette dei protagonisti.
Il tempo del racconto
Dire che il tempo è il motore pulsante del racconto è un’ovvietà, che però fa bene ogni tanto ripetere come un mantra, prestando ascolto ai tanti studiosi che ne hanno accentuato questo o quell’aspetto. Se per Peter Bichsel il narrare implica un’operazione sul tempo, per Italo Calvino, nella sua lezione sulla “Rapidità”, il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo.[xi] L’uso del tempo verbale nell’atto narrativo è uno degli strumenti attraverso i quali questa magia si può compiere, ed è così essenziale per qualsiasi produzione linguistica che assuma la relazione di uno o più avvenimenti, che Gérard Genette ritiene legittimo trattarlo come uno sviluppo (“mostruoso finché si vuole”, ammette) dato a una forma verbale, nel senso grammaticale del termine: l'espansione di un verbo.[xii]
Se pensiamo che il presente, negli studi di linguistica letteraria è stato considerato fino a tempi relativamente recenti, rispetto ai più utilizzati imperfetto e passato remoto, un dispositivo verbale poco adatto alla narrazione,[xiii] risalta con forza il lavoro compiuto da molti autori contemporanei nel renderlo l’efficace strumento di espressione che adesso è riconosciuto essere. Per affrontare questo argomento occorre partire dal saggio che, nell’analisi linguistica testuale, è tuttora considerato un insuperato punto di riferimento critico a cavallo tra strutturalismo e grammatica generativa e trasformazionale: Tempus di Harald Weinrich, uscito intorno alla metà degli anni ’60. È nota, con le dovute eccezioni, soprattutto contemporanee, la distinzione operata da Weinrich tra tempi narrativi (in italiano: imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo e condizionale) e tempi commentativi (presente, passato prossimo e futuro), la cui alternanza, qualora sia presente nel testo, opera la distinzione tra le parti diegetiche e quelle di commento e descrizione. ll tempo verbale nel testo non ha nulla a che fare con il tempo reale dei nostri orologi, è dunque Tempus e non Chronos e per Weinrich ha invece a che fare con l’atteggiamento comunicativo che indica al lettore quale atteggiamento ricettivo egli debba adottare verso il testo. Insomma, i tempi usati offrono al narratore la possibilità di influenzare la modalità di ricezione del lettore, che è “invitato” ad assumere verso il testo un atteggiamento di tensione e di coinvolgimento in presenza di tempi commentativi e uno stato di distensione, di distacco psicologico, con quelli narrativi. Lo stato di tensione indotto dall’uso del presente — espansione moderna della figura retorica del “presente storico” adottata fin dall’antichità per rendere più “vivo” il racconto — ha dunque a che fare con avvenimenti che toccano direttamente il narratore e come tali impegnano il lettore a un’accoglienza partecipata, a un surplus di attenzione per situazioni che avvengono nell’hic et nunc del parlante, nel momento stesso dell’enunciato, e non è un caso che questa modalità prenda corpo e forza, come vediamo abbondantemente nelle narrazioni contemporanee, anche con l’uso dell’”io” della prima persona.[xiv] Va comunqe detto che quella su cui stiamo ragionando non è certo l’unica funzione del presente nei testi narrativi.[xv]
Tra le numerose opere disponibili per testare i ragionamenti fin qui esposti ne scegliamo due di recentissima uscita, nelle quali si sviluppa un uso complesso dei tempi verbali. Ne La bestia dentro di Kevin Brooks, il piano degli eventi narrati in prima persona, rigorosamente al presente da Elliot, che prendono il via esattamente alle ore 15 pomeridiane della vigilia di Natale e sono scanditi dai battiti dell’orologio che si fermerà solo a fatti compiuti nel cuore della notte, si alterna continuamente con altri due piani: quello del passato, la prima infanzia nei ricordi del protagonista e quello degli eventi preparatori — le azioni dei due criminali che hanno sequestrato la madre e la zia nella casa di quest’ultima — affidati alla vista e alla voce del narratore esterno. I vari piani del racconto con i rispettivi ruoli del narratore si incontreranno solo nell’intreccio della storia, mai nell’uso dei tempi verbali che verranno sostenuti fino alla fine, quando il tempo prenderà a scorrere “come in un film muto al rallentatore”, rendendo con ciò adrenalinico e sommamente immersivo il resoconto dell’avventura, in una efficace inversione di quella che è considerata la tradizionale ripartizione tra tempi di primo piano e tempi di sfondo. Anche Licia Troisi ne La nocchiera del tempo ci offre un’avvincente esperienza di lettura affidata a un uso alternato di tempi verbali, gestendo al passato il piano della diegesi principale e al presente quello degli avvenimenti che l’hanno preparata. La storia, in mirabile equilibrio tra questi piani temporali e con forte effetto di suspence, vede la narratrice, la Nocchiera Poe, muoversi tra perigliosi ingressi e uscite dal multiverso, ove si sta si sta svolgendo una guerra per la sopravvivenza, nel tentativo di recuperare un’arma che potrebbe annullare un’intera comunità.
Presente e presentismo
Fin qui linguaggio, stile, tecnica e intenzionalità delle scelte autoriali ci hanno consentito di osservare il fenomeno dell’uso del tempo verbale dal punto di vista della comunicazione letteraria; non possiamo però ignorare il panorama nel quale gli autori si trovano oggi ad agire, un panorama storico e culturale segnato da un’ingombrante “presenza” del presente, ricondotta da molti studiosi sotto il termine “presentismo”, concetto ritenuto indispensabile per la comprensione dell’esperienza della contemporaneità.
Tra i primi e più acuti osservatori di questo fenomeno va annoverato lo storico Françoise Hartog, che nella sua disamina dei regimi di storicità — le modalità di coscienza di sé di una comunità umana — ha rilevato come il XX secolo abbia definitivamente legato futuro e presente in un’unica forma dominante di presentismo, nella quale il punto di vista del futuro, in cui prevale come ordine del tempo l’accelerazione, si è via via trasformato, grazie alla velocità, in eterno presente — l’”imminente” secondo la lezione etimologica del linguista Emile Benveniste.[xvi] “Il presente è diventato l’orizzonte. Senza futuro e senza passato, esso genera, giorno per giorno, il passato e il futuro di cui ha giorno dopo giorno bisogno, e valorizza l’immediato”.[xvii] Il presente dilatato verso il futuro ma anche gravato dalla memoria del passato è, allora, incalzato dall’entropia, “l’istante, l’effimero, l’immediato lo ghermiscono e solo l’amnesia può essere la sua sorte.”[xviii] Un presente con queste caratteristiche, come nota il filosofo Giacomo Marramao, è un tempo in cui comunque resta difficile “incardinarsi”, è come profeticamente affermato dall’Amleto di Shakespeare, fuori-asse, è come se “l’avvenire, anziché dispiegarsi come soluzione ai nostri problemi vitali, fosse imploso, ripiegandosi in un futuro-passato”.[xix]
A questa sindrome non si sottraggono molti personaggi dei romanzi contemporanei. Pensiamo, per tutti, a Jefferson e Donna, protagonisti della trilogia firmata dallo scrittore e sceneggiatore Chris Weitz. I due, sopravvissuti come altri adolescenti a un morbo sconosciuto che ha decimato la popolazione statunitense e ha provocato un vero e proprio crollo della civiltà, fanno parte di un gruppo che ha occupato la zona di Washington Square Park a New York. Il loro obiettivo è recuperare negli archivi della Public Library un documento scientifico che dovrebbe contenere determinanti informazioni sulla malattia; la spedizione sarà una vera e propria operazione militare nel corso della quale violenza, dolore e perdita saranno il pane quotidiano dei ragazzi, un qui e ora senza spiragli sul prima e sul dopo, come ha chiaro Donna: “Ci sono già stati dei funerali prima, ovviamente. Qualcuno viene accettato nella grande università del cielo ogni tot settimane. Di solito cerchiamo di dimenticarcene e andare avanti. Da queste parti cerchiamo di non pensare al futuro. E cerchiamo di cancellare il passato”.[xx] L’idea di futuro, quando si materializza, è solo un’ipotesi generatrice di ansia e paura; Long Island potrebbe essere per il gruppo una meta per la sopravvivenza, ma lo sguardo in quella direzione destabilizza: “Non voglio andarci. Voglio restare qui, per una volta. Qui e ora. Il passato non c’è più. L’isola è il futuro”.[xxi] Che dire poi della gabbia del presente in cui si trova imprigionato Jack, protagonista di Ogni prima volta, mentre tenta in una crescente e dolorosa coazione a ripetere, innescata da ripetuti viaggi nel tempo, di salvare la vita all’amata kate, e perché no, di sconfiggere, una volta tanto, Chronos?[xxii]
Come riferisce Rüdiger Safransky nel suo saggio sul tempo,[xxiii] un reportage sulla tribù indigena dei Pirahã dell’Amazzonia, condotto dall’etnolinguista Daniel Everett,[xxiv] informa che la lingua di questo popolo non conosce differenziazioni temporali grammaticali, e che tutto è coniugato al presente. Secondo Everett questo presentismo fa sì che la tribù non conosca preoccupazioni per l’avvenire. Con Safransky non possiamo non chiederci, allora, se la grammatica non determini la vita e non possa addirittura salvarcela.
[i] Cfr. C. Segre. Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Torino, Einaudi, 1974.
[ii] S. Collins. Hunger Games, Milano, Mondadori, 2009, p. 9.
[iii] V. Roth. Divergent, Novara, De Agostini, 2012.
[iv] C. Daykin. Fish Boy, Firenze, Giunti, 2019, p. 8.
[v] Si veda la saga distopica in 5 volumi uscita per Mondadori e raccolta sotto il titolo Gregor.
[vi] P. Ness. Chaos. La fuga, Milano, Mondadori, 2015. Il romanzo era uscito già con il titolo Il buco nel rumore per Rizzoli nel 2008.
[vii] J. Wood. Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative per lettori e scrittori, Milano, Mondadori, 2011, p. 11.
[viii] Ibid., p. 14.
[ix] Ibid., p. 25.
[x] L. Perrucci. La prodigiosa Macchina Cattura Anime di Cassandra Apollinaire, Milano, Mondadori, 2022.
[xi] I. Calvino. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988.
[xii] G. Genette. Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 2006.
[xiii] Si fa riferimento alle affermazioni di critici come Hamburger, per la quale il presente come tempo della narrazione è inammissibile e rivela nello scrittore cattivo gusto; o come Petsch, per il quale un racconto tenuto tutto al presente è come una lettera con tutte le parole sottolineate. Questi giudizi sono riportati da H. Weinrich. Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 126.
[xiv] Infatti, la narrazione storica “non dirà mai io, né tu, né qui, né ora, poiché non prenderà mai in prestito, l’apparecchiatura formale del discorso, che consiste anzitutto nella relazione di persona io: tu. Nella narrazione rigorosamente storica possiamo quindi trovare solo forme di “terza persona”: E. Benveniste. Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 285.
[xv] Si veda, ad esempio, l’ampia e approfondita rassegna di casi in P.M. Bertinetto. Tempi verbali e narrativa italiana dell’Otto/Novecento. Quattro esercizi di stilistica della lingua, Alessandria, Editore L’Orso, 2003.
[xvi] F. Hartog. Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, Palermo, Sellerio, 2007, p. 146-147. Si veda anche Rüdiger Safranski sul tema dell’eternità: se questa dev’essere “qualcosa di diverso dal tempo, allora non può avere una successione, è invece un presente permanente, senza un prima e un dopo, senza passato e senza futuro. Il tempo come lo esperiamo noi è soltanto una semplice copia di questa eternità atemporale (Il tempo. Che cos’è e come lo viviamo, Rovereto, Keller, p. 186).
[xvii] F. Hartog. Regimi di storicità, cit., p. 151-152.
[xviii] Ibid. p. 240.
[xix] G. Marramao. Kairos. Apologia del tempo debito, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, p. 17.
[xx] C. Weitz. The Young World, Milano, Sperling&Kupfer, 2015, p. 35.
[xxi] Ibid. p. 285.
[xxii] J.A. Reynolds. Ogni prima volta, Milano, Piemme, 2019.
[xxiii] R. Safransky, Il tempo, cit. p. 67.
[xxiv] Cfr. D. Everett. Non dormire, ci sono i serpenti. Vita e linguaggio nella giungla amazzonica, Novate Milanese, Fabbrica dei Segni, 2021.
Appendice
Trend prima persona
Che ci sia una spiccata tendenza alla narrazione in prima persona nella letteratura per ragazzi è confermato da precisi riscontri numerici. Una nostra analisi effettuata in LiBeR Database sull’intera produzione editoriale dal 1987 al 2018 (campione di oltre 63000 record) dà come risultato circa 5000 record riconducibili a questa modalità di espressione. Scendendo nel particolare si nota come fossero ogni anno meno di 10 dal 1987 al 1992, meno di 30 dal 1993 al 1996. Dal 1997 i numeri hanno cominciato a crescere: superano i 100 già nel 1999 e dal 2000 al 2006 la media si attesta sui 180. Dal 2007 al 2018 passano da 230 a 333, con un aumento del 44,7%.
Di qualche interesse sono anche i dati sull'uso della prima persona nei generi letterari:
Storie dell’età evolutiva: 27,9%
Fantasy, Fantascienza e Storie fantastiche: 13,5%
Divulgazione: 11,5%
Albi cartonati e illustrati, Racconti illustrati e Libri gioco: 10,5%
Temi sociali e storici: 8,7%
Umorismo: 7,9%
Giallo: 5,4%
Horror e Mistero: 4,7%
Avventura: 1,9%
Altro: 8%
Per fascia d’età invece la ripartizione fra bambini/ragazzi vs adolescenti/giovani adulti è di 48.5% per i primi, 51,5 per i secondi