C’era una volta l’utopia

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Ambivalenze e disavventure del desiderio nella ricerca di un mondo migliore - di Riccardo Pontegobbi

La grande missione dell’utopia è di creare spazio al possibile; contro ogni passiva acquiescenza allo stato presente. È il pensiero simbolico che supera la naturale inerzia dell’uomo e gli conferisce una capacità nuova, la capacità di dare forme sempre diverse al suo universo (Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo)

 Il secolo di Orwell e di Popper ha segnato un drastico ridimensionamento dell’orizzonte di utopia. Il filone inaugurato da Thomas More e praticato con alterne fortune da illustri pensatori tra ‘600 e ‘800 ha incontrato nella geniale distopia di 1984 e nella serrata critica avanzata ai nemici delle società aperte due formidabili ostacoli.

Termine polisemico, “utopia”, e di controversa etimologia;[1] lo si usa alludendo ad “a spirazioni ideali non suscettibili di realizzazione pratica” o, più in particolare, a “ideali etico-politici destinati a non realizzarsi sul piano istituzionale”.[2] La definizione offerta dal linguaggio comune non potrebbe essere più esplicita nel condurci tra le secche in cui si è impantanata la corrente di pensiero: in risposta a bisogni di miglioramento personale e collettivo, utopia ha vagheggiato la nascita di società perfette e di città ideali, i cui inquietanti risvolti distopici, però, non hanno tardato ad apparire, fin nella forma di disastrosi tentativi realizzativi. Riflettendo sulla mostruosa “perfezione” di molte di queste costruzioni teoriche, se n’è posto l’accento sull’esito fondamentalmente autoritario[3] e sono state autorevoli le voci che si sono rallegrate per le mancate realizzazioni, sicure che in questi casi l’umanità non abbia perso che la certezza di ulteriori tragedie.[4]

Infatti, “nella sua accezione più generica di ‘generoso tentativo’, l’utopia si presenta, nei suoi singoli risultati storici, come una sconfortante sequenza di disillusioni e di fallimenti, ed è altrettanto vero che il mondo degli utopisti è un ‘immane guazzabuglio’”.[5] Ciò è tanto più vero se si pensa che alla preistoria di utopia sono stati attribuiti miti, leggende o suggestioni quali il Paradiso terrestre, i luoghi della geografia fantastica degli antichi (Isole Beate, Isole Fortunate), l’età dell’Oro, il millenarismo… tutti progetti ideali che hanno avuto, comunque, sostanziosi e concreti effetti nella realtà: le utopie infatti ”hanno dato voce, seppure in forma prescientifica, ai dolori dell’umanità e hanno espresso, talvolta in forma ingenua, la speranza di poterli alleviare o rimuovere definitivamente”.[6]

 Hartmann Schedel - Das ander alter der Werlt - 1493

Sepolta sotto un’irrefrenabile vocazione alla costruzione di mondi perfetti, minata dai morbi della semplificazione e del riduzionismo, destinata come essere bifronte a rivelare sempre il suo volto mostruoso, utopia conserva, tuttavia, attualità e presa sulla realtà esercitando con i propri sogni una funzione critica nei confronti dello stato di cose esistenti, delle società e dei sistemi politici correnti. È soprattutto in virtù di questa forza propulsiva applicata ai processi storici che l’utopismo ha incontrato, tra l’altro, in filosofi del calibro di Ernst Bloch, Theodor W. Adorno, Karl Mannheim, Herbert Marcuse, i protagonisti di un tentativo di rivalutazione teorica che viene avanti dalla prima metà del secolo scorso.

 L’utopia nel regno del “c’era una volta”

L’universo di utopia si presenta ancora oggi frastagliato e affascinante, in virtù del richiamo a quello “spazio al possibile”, ricavabile attraverso desiderio e immaginazione, elementi mediante i quali continua a sollecitare individui e popoli con innumerevoli suggestioni.

C’era un volta l’utopia che si muoveva nell’alveo della teorizzazione politica e in quello della filosofia sociale; la crisi di questi orizzonti e l’opera di accaniti pensatori ha aperto nuovi spazi di ricerca nella direzione dell’immaginario folclorico e letterario. A partire dalla fine degli anni ’20 del ‘900, grazie soprattutto ai lavori di Walter Benjamin, di Ernst Bloch e poi a quelli di eminenti filosofi della scuola di Francoforte, gli studi su utopia hanno trovato nella fiaba un fertile terreno di applicazione.

La fiaba popolare e letteraria di epoca moderna – elaborata nel corso di quattrocento anni a partire dalla raccolta cinquecentesca di Straparola e “canonizzata” nell’Ottocento dall’opera dei fratelli Grimm – ha raccolto, come sappiamo, l’eredità del racconto popolare di tradizione orale, la “maggior parte dei [cui] motivi, riconducibile ai rituali, alle abitudini, ai costumi e alle leggi delle società primitive e precapitalistiche”, convogliava la visione del mondo delle classi subalterne e conteneva molti spunti utopici, sia sul fronte “critico”, con elementi legati alla descrizione delle condizioni di vita di quelle classi, che su quello più genericamente “ideale”, con fattori legati alle loro aspettative di miglioramento.[7]

Pur non sottovalutando i molti distinguo che sono stati avanzati riguardo al passaggio nella fiaba degli elementi utopici presenti nel racconto popolare – alcuni peraltro attentamente indagati nei saggi di Jack Zipes, per la parte che concerne il ruolo di filtro ideologico esercitato dai “riscrittori” borghesi dei vari motivi, e la perdita del legame diretto con la realtà socio-economica in cui questi erano maturati[8] – è ormai riconosciuto che le ampie tracce delle pulsioni desideranti rinvenibili in questo tipo di storie abbiano contribuito ad aprire un’altra strada di utopia, parallela a quella tracciata nell’ambito della teorizzazione filosofico-politica, strada che passa attraverso l’universo fiabico alimentandone il corpus.

Questa versione di utopia non si muove, dunque, sulla via maestra del pensiero politico classico, incanalato dalla Riforma e sviluppato poi come pensiero borghese riformatore. Il suo è un sentiero “diverso”, non necessariamente “minore”, anche se in esso non sono presenti grandi costruzioni politico-filosofiche, non vi troviamo il poderoso disegno della Repubblica, né la complessità sociale dell’”Alveare” di Mandeville, non le elaborate configurazioni di società ideali, non gli stati in forme politiche mature; da questa via passano, più semplicemente, destini, fortune e sfortune, aspirazioni, desideri, sogni e bisogni di personaggi che agiscono trame fiabiche o storie di narrativa realistica e fantastica.

Il mondo della fiaba, creazione del pensiero popolare, e quello di utopia, sofisticato meccanismo maturato nell’ambito del pensiero politico a partire dal Cinquecento, risultano due universi paralleli tra i quali sono stati individuati profondi solchi, addirittura uno stato di conflitto profondo tra due visioni del mondo, rispetto a modalità, fini e pratica del riscatto sociale in essi perseguito. Lo ha messo in evidenza, tra gli altri, Dieter Richter, mostrandone le fondamentali opposizioni ideologiche e politiche.[9]

Volendo arricchire il quadro delle opposizioni che hanno segnato la condizione della cultura popolare e del suo immaginario, occorre tener presente anche altri contesti. Innanzitutto quello in cui è maturata la trasformazione del racconto popolare in fiaba letteraria, che si inscrive nel più ampio conflitto per l’egemonia combattuto tra cultura popolare e cultura d’elite (tra cultura dei “pregiudizi” e cultura dei “sapienti”),[10] conflitto scoppiato a partire dall’epoca della Controriforma, con ampio dispiego di mezzi da parte degli intellettuali organici alle classi dominanti e delle gerarchie cattoliche. La “guerra”, conclusasi con la definitiva marginalizzazione[11] della cultura popolare in tutte le sue forme, è stata politicamente e ideologicamente serrata e ha avuto i suoi momenti più alti e drammatici quando si è combattuta sul campo delle espressioni culturali dell’immaginario popolare che più mettevano in discussione l’ordine costituito, sui loro contenuti prospetticamente liberatori; si allude, ad esempio, alle vicende legate al Carnevale, sorta di mondo alla rovescia, regime del comico e del visionario, instaurato nel periodo tra Epifania e Quaresima e portatore, in forme anarchiche e caotiche di eversivi elementi di critica sociale.[12]

Poi, dal punto di vista della storia delle idee, non va sottovalutato il fecondo indirizzo inaugurato nel pensiero antico riguardo il concetto di desiderio (a cui hanno dato contributi fondamentali Platone, Aristotele, gli stoici e gli epicurei), che trova proprio nella diffusione della filosofia cristiana il suo punto di rottura. Si è parlato del cristianesimo come di “catastrofe del desiderio”: esso è stato davvero “de-siderium: allontanamento da Dio, caduta dal cielo e dagli astri (siderea), disastro”.[13] Nella teologia cristiana, la causa del peccato originale viene, come noto, fatta risalire al desiderare, vulnus che conduce direttamente il desiderio del mondo ad essere assimilato al carattere demoniaco della libido. Sono proprio i Padri della Chiesa a compiere l’opera, con lo stringere in una morsa fatale desiderio e piacere, osservando e condannando nella dinamica del desiderio (piacere “in atto”), la contaminazione introdotta da godimento e voluttà.[14]

Per dar ragione di questo ampio fronte crediamo pertanto che si debba porre attenzione alle sue confluenze, che recano nell’alveo del concetto di desiderio, essenziale prima nel racconto orale, poi nella fiaba e in seguito nel campo dell’invenzione letteraria rivolta all’infanzia che da queste fonti è derivata. Attorno al forte peso di questo concetto si è costituita la grammatica di quell’”utopia popolare” che ha agito in questi ambiti letterari e culturali, esplicando un’ampia fenomenologia: mondi alla rovescia, paesi di Cuccagna, viaggi utopici, luoghi fantastici e magici, teatro della lotta tra Bene e Male, oggetto di invenzioni letterarie fantastiche e fantasy.

Molto tempo fa quando il desiderio poteva ancora trasformare i sogni in realtà…

Sono i Grimm a mettere in guardia il lettore sul ruolo rivestito dal desiderio nella fiaba: in apertura alla loro opera, proprio nella prima storia della raccolta, il “Principe ranocchio o Enrico di ferro”, sostituiscono la formula che di solito introduce al mondo magico delle fiabe (il “c’era una volta” che sospende l’incredulità e dà avvio alla fabula) con la seguente: “Molto tempo fa quando il desiderio poteva ancora trasformare i sogni in realtà… (e più oltre, nella breve storia “Il forno”: “Al tempo che il desiderio serviva ancora a qualcosa…”).

Il principio motore della fiaba è posto dai fratelli tedeschi nell’agire del desiderio, nella sua forza dirompente, nella sua capacità di muovere prodigi, avverare sogni, trasformare realtà.

Come ci ricorda Stefano Calabrese nel suo saggio sulla fiaba, di cosa essa parla, se non di “un itinerario del desiderio che muove senza dubbio da una mancanza, prosegue con l’assegnazione di un compito e la partenza dell’eroe verso terre lontane, termina con la gratificazione del desiderio attraverso l’aiuto magico di entità esterne o il ricorso all’arguzia”?[15]

Questo percorso che costituisce la struttura stessa della fiaba di magia, rimanda all’utopia; in particolare a quello “schema narrativo popolar-utopico”, come lo ha definito Dieter Richter, che con la tradizione del pensiero filosofico di utopia ha poco da spartire, e non solo per le fondamentali differenze, prima accennate, esistenti sul piano dei contenuti ideologico-politici.

Insomma, il modus operandi dell’intreccio fiabico è fondamentalmente quello del viaggio intrapreso dall’eroe, che altro non è se non un viaggio utopico, un percorso attraverso il quale si compie la trasformazione della propria vita migliorandola.[16]

Questo percorso pare tagliato addosso ai “minuscoli”, agli emarginati o ai derelitti, agli sciocchi e ai rozzi, ai giovani sprovveduti, ai “piccoli uomini” osservati nel dispiegarsi della loro brama di riscatto, ai deboli ma fortemente desideranti antieroi, le cui difese si affidano a svariate armi, tra le quali, non ultime, l’astuzia (ma anche il suo contrario, la beata inconsapevolezza), il coraggio, lo sprezzo del pericolo e della morte; ma per i cui bisogni, fortuna e magia appaiono spesso essenziali. E se è vero che magia e buona sorte sono sovente conditio sine qua non dell’esito felice delle vicende, è altrettanto vero che nella forza del sogno e del desiderio, nella loro freschezza e genuinità, queste condizioni trovano innesco e alimento.

Sognare non è dunque inutile, come parrebbe esser diventato nei “tempi moderni”, a differenza dei “tempi antichi quando desiderare serviva ancora a qualcosa…”. Anzi. Gianni Rodari, ad esempio, fonda proprio sulla necessità e sul potere dell’immaginazione, della fantasia, del sogno, quell’assimilazione tra fiaba e utopia che segna tutta la sua opera.[17]

Il desiderio nasce, etimologicamente, da uno stato di piacere che ha subito un’interruzione, sgorga in reazione a una mancanza,[18] di cui si fa espressione; esso è pur sempre il punto di vista di una caduta, l’approdo di una “discesa agli inferi” della realtà, la condizione dello sguardo, che sceso dalle stelle sulla terra, brama di ritornare allo stato originario di contemplazione.

Hai mai guardato le stelle? Sei mai rimasto fuori a lungo, soltanto per contemplar[le]? Così a lungo da sentirti girare la testa. Non perché tenevi la testa piegata all’indietro, ma perché il tuo sguardo arrivava tanto lontano. Cosa c’è laggiù, al di là delle stelle più lontane? Cosa c’è al di là di tutto?[19]

Questa brama è espressione vera e genuina dell’essenza umana, sua verità, principio rivoluzionario per eccellenza, come la storia del pensiero ci ha insegnato. La fiaba ne è potente espressione “letteraria”, trasfigurata attraverso la magia indotta dall’immaginazione.

È Freud, in Totem e tabù, a stabilire questa convergenza per spiegare la credenza nell’efficacia dell’atto magico, credenza che altro non è se non un prodotto del desiderio:

I motivi che spingono a esercitare la magia sono facilmente riconoscibili: sono i desideri dell’uomo … l’uomo primitivo ha una straordinaria fiducia nel potere dei propri desideri. In fondo tutto ciò che egli realizza per via magica deve accadere soltanto perché egli lo vuole”. [20]

In questo fenomeno, attivo nel modo di pensare animistico primitivo, ma anche nella vita affettiva del nevrotico contemporaneo, è ravvisabile “una sopravvalutazione generale dei processi psichici”, tanto che “il principio che regge la magia … è quello della ‘onnipotenza dei pensieri’”.[21] Freud mette in relazione l’alto valore attribuito alle azioni psichiche col “narcisismo”, ne fa anzi una componente essenziale di quello stadio dello sviluppo nel quale il pensiero è “ancora in larga misura sessualizzato”.[22]

Da un altro punto di vista l’adulto si apre alla consolazione della magia per esigenze che nascono nel concreto dispiegarsi della sua esistenza, quando le elementari pulsioni vitali si scontrano con la dura realtà. Stith Thompson, contestando il presunto infantilismo di leggende quali Santa Claus, Babbo Natale, la Befana, le riporta nell’ambito di una più comprensibile versione in chiave infantile di fantasie umane:

In una vita di lotta per il cibo e per un tetto, di fatica e di lunghi viaggi, di ambizioni e di affetti delusi, non fa meraviglia che una creatura come l’uomo, nei sogni notturni o nelle fantasticherie diurne, immagini situazioni in cui non sussista più alcuna difficoltà. Una tovaglia magica che imbandisce pranzi, armi che sconfiggono il nemico, un tappeto che ci trasporta a piacer nostro, talismani che ci procurano amore o ci aiutano a vincere al malattia e la morte: tutto questo è servito all’uomo, come narcotico, ad addolcire il dolore della vita.[23]

Certo, ci avverte ancora Thompson, dandoci spunti per una riflessione che riprenderemo più avanti, “vi è anche, in queste fantasie, una componente velleitaristica, l’aspirazione a una vita in cui le ricchezze e il denaro bastano a procurarsi tutto ciò che si può desiderare”.[24]

Non è, del resto, peculiare caratteristica della fiaba, per alcuni la più significativa, la rappresentazione fantastica e realistica al tempo stesso, delle fondamentali pulsioni che muovono l’agire umano, a conferire a questo genere letterario la capacità di essere una “spiegazione generale della vita”?[25] Non ci insegna, più prosaicamente la fiaba, a coltivare il desiderio per poter superare gli ostacoli che la dura vita ci frappone?

Sull’importanza di questa particolare coltivazione hanno molto da dirci alcuni fabulatori contemporanei.

 

Un intenso romanzo di Angela Nanetti ci riporta alle origini siderali del desiderio dalle quali siamo partiti: “Quando nel cielo spunta la prima stella, guardala fisso ed esprimi un desiderio: di sicuro s’avvera”,[26] dice sempre Myriam ad Arno, e questi ne ha uno grande, ritrovare suo padre, costituire un’unità familiare mai goduta, se non nei più intimi recessi dei propri sogni. Il passaggio di una cometa dopo mille anni, una cometa capace di esaudire qualunque desiderio, il senso spasmodico dell’attesa che questo evento introduce nella vita del ragazzo, finora vissuto in un ambiente montano, a contatto con una comunità ruvida e chiusa nelle proprie convinzioni e abitudini, sono la chiave di volta di una storia nella quale fantastico e reale stanno in perfetto equilibrio.

Sarà uno straniero a far evolvere la situazione, il seminatore di comete Horia, cercatore paziente e ostinato di quel “cielo giusto” che è necessario per farne nascere una, utilizzando una polverina luminescente donata da un vecchio saggio, il richiamo di un'altra stella e tanto, tanto desiderio;[27] uno straniero che può addirittura diventare il padre a lungo sognato – anche se questo costerà l’ostilità del paese, regno di pregiudizi e di cattiveria nel quale si insegna a rassegnarsi e a smettere di inseguire i sogni – e che rafforzerà in Arno la convinzione della necessità dei propri progetti.[28] Spesso, come nel caso di Arno e Horia, desideri e progetti individuali, se intensi e ambiziosi, debbono fare i conti con l’asprezza delle condizioni reali di esistenza o con l’ostilità verso il “diverso” che sprigiona dall’ambiente sociale. È partendo da queste premesse che possiamo valutare con più consapevolezza i difficili percorsi di crescita avviati da tanti piccoli uomini o piccole donne, che ci parlano dalle pagine di alcuni interessanti romanzi contemporanei.

Il sogno di una vita diversa, da realizzare attraverso la danza, al di fuori di schematismi tradizionali e scuole di pensiero consolidate, coltivato da Isadora Duncan, è il sogno, ancora in grado di emozionarci, di una liberazione femminile tra fine Ottocento e inizio Novecento:

Credevo in me stessa con tutta me stessa. Credevo nelle mie possibilità e nel sogno di una danza diversa, che poi era il sogno di una vita diversa, di uno spirito libero in un corpo liberato.

Questo il motto di una femmina forte e irriducibile – ripropostaci in una bella biografia romanzata da Sabina Colloredo –, di una ragazzina che osserva lo stile di vita borghese delle coetanee, scritto come in un copione fin dalla nascita, e ne denuncia il limite:

Non avevano nessuna possibità di ribellione, di ricerca o di scelta di qualcosa che gli altri non avessero già deciso. Avrei voluto scuoterle, gridare: ‘Non vi accorgete che siete già morte?’. [29]

Ma, il sogno individuale può diventare anche collettivo? Sì, per Isadora, pur conscia di tutta l’ingenuità del suo progetto, è possibile; ella è convinta che le potenzialità espressive della sua danza, possano indicare alle altre donne una via di liberazione del corpo e della mente. Il sogno di un mondo migliore non l’abbandonerà mai; la cruda realtà politica e sociale di inizio secolo si premurerà di ravvivarglielo con toni drammatici quando, inconsapevole testimone oculare del fallimento e della repressione nel sangue della rivoluzione russa del gennaio 1905, troverà nell’orrore dell’ingiustizia e della povertà nuovi stimoli per la sua missione.[30] Nel corso della sua vita, Isadora fonderà e dirigerà scuole di danza, nelle quali ci saranno occasioni di crescita sociale, culturale e spirituale per tante giovani meno abbienti.

In una interessante ricerca condotta qualche anno fa da Mafra Gagliardi per conto dell’Osservatorio dell’Immaginario di Torino, nella quale si traccia una mappa articolata e approfondita dei desideri e dei sogni di un nutrito campione di bambini “reali e attuali”, abbiamo la conferma che anche nei piccoli abitanti del nostro ipertecnologico presente, desideri e magia, come un tempo, convolano naturalmente a nozze.[31] Il pensiero e l’immaginario infantili, come ci ha insegnato Jean Piaget analizzando la formazione del principio di causalità nel fanciullo – a partire da definizioni avanzate da Lévy-Bruhl sul funzionamento del pensiero primitivo – trovano fondamento nella “confusione tra realtà e pensiero” che contraddistingue i meccanismi elementari della mente.

Se il bimbo narcisista crede nell’onnipotenza del suo pensiero, ciò accade evidentemente perché egli non distingue il suo pensiero da quello degli altri, né il suo io dal mondo esterno. Egli non ha dunque coscienza del proprio io. Se è innamorato di se stesso, non è perché conosca il proprio io, ma perché ignora tutto ciò che è estraneo al suo sogno e ai suoi desideri.[32]

E non è solo l’elementare appetizione dell’essere vivente, spinto all’azione per soddisfare i propri bisogni, ad agire e ad essere rappresentata nel meccanismo fiabico; la distinzione fondamentale introdotta da Freud tra bisogno e desiderio e l’uso che egli ha fatto di una pluralità di lemmi per descrivere quest’ultimo concetto,[33] ci ha fornito oltre a un quadro terminologico imprescindibile, un’idea della complessità delle esperienze che contraddistinguono la dimensione desiderante, la stessa complessità che nella fiaba finisce per esservi proiettata, caricando di aspettative il futuro, orizzonte e spazio ideale della soddisfazione.

Qui bisogni elementari di sicurezza materiale e sogni di felicità si intrecciano caleidoscopicamente: la fame sconfitta in Tavolino apparecchiati o nella Pappa dolce è solo un piano di questo teatro delle voglie, che allestisce Paesi di cuccagna o mondi nuovi per alleviare atavici appetiti, che ribalta il destino di tanti poveri Hansel e Gretel, abbandonati nei boschi, che distribuisce a stolti, fortuna e ricchezza grazie all’intervento di oggetti e aiutanti magici, che disvela a uomini usurati dalla vita, tesori o talismani nascosti nel cavo di alberi secolari. Il tutto con semplicità e leggerezza, qualità attraverso le quali vengono costruiti i rudimentali mondi alla rovescia, nei quali si fa “critica sociale” col registro della follia, lo stesso con il quale viene innalzata l’immaginazione al potere, servendosi di spacconate, millanterie, esagerazioni e bizzarrie degne del Barone di Münchausen. In questo teatro trova spazio di rappresentazione anche il sogno dei sogni: immortalità e eterna giovinezza sono alla portata di chi riesca ad abbeverarsi alla fonte dell’”acqua della vita”.

La magia di questo meccanismo narrativo, innescato dal desiderio, si ripresenta feconda anche in romanzi recenti, Allan Ahlberg e Uri Orlev, fanno subire a due loro protagonisti un’imbarazzante trasformazione in animale: Eric Banks, decenne, viene improvvisamente trasformato in un Norfolk terrier e tutto ciò che questa trasformazione implica, abilmente sfruttata dall’autore nel soave impianto umoristico del racconto, pare muovere inesorabilmente dalla voglia insoddisfatta della sorellina Emily di possederne uno.[34]

La trasformazione in leone di David è conseguenza dei suoi desideri infantili, incautamente rivelati a uno stregone che, per la verità, veste anch’egli i panni di un modesto cane:

Un giorno gli raccontai della mia vita, di mio padre, della mia infanzia. Gli rivelai anche del solo e unico desiderio che avessi mai avuto quando ero un bambino: di diventare un leone … I bambini piccoli e deboli sognano a volte di essere grandi e forti come leoni.[35]

A sue spese, David scoprirà che se è difficile essere un bambino, se ti senti debole, addirittura “quasi il più debole”, non lo è di meno essere un leone in città e anche nella giungla e che, come ci insegnano le fiabe e come confermano queste opere contemporanee, l’esaudimento dei desideri può talvolta essere meno piacevole della loro rinuncia.

Quell’utopia di un mondo da cani

Continuando per questa strada incontriamo un cospicuo filone di storie giocate all’insegna delle “vite da cani”, storie che, in qualche modo, rivisitano e rinnovano motivi presenti nella tradizione del “mondo alla rovescia”, agglomerato tematico, contiguo al filone di utopia, insieme a quello di Cuccagna che ha attecchito anche nell’ampio corpo della letteratura contemporanea per ragazzi.

Per efficacia narrativa e intensità emotiva, due storie si ergono sulle altre. Ambientate in epoche storiche molto distanti tra di loro – la prima prende le mosse in un gelido pomeriggio del gennaio 1623, mentre la seconda è collocata nei giorni nostri – sono due lucidi e affilati esempi di critica sociale, coltivata in un impianto narrativo fantastico.

Ne La bestia e la bella di Silvana De Mari, il ventiduenne Manrico Ildebrando Alberto di Roccanova, principe di un “triste feudo dove la miseria e l’ingiustizia regnano sovrane”, sperimenta sulla propria pellaccia di cane la preziosità di ogni vita e l’importanza, soprattutto per i più umili, del buon governo della cosa pubblica. La trasformazione, con conseguente destrutturazione di tutta una visione della vita, avviene ad opera di una vecchia fattucchiera, fatta oggetto dell’ennesima manifestazione di insensibilità e di egoismo, attività nelle quali il principe eccelle. Il destino del giovane, da quel momento è quello che tocca in sorte, in un mondo spietato, a un “immondo rognoso botolo di un indistinto color fango, con la coda come quella di un sorcio e una vocetta ridicola”; una incarnazione che offre ampie “valenze didattiche” al ragazzo, portandolo a contatto con le miserevoli condizioni sociali del popolo dell’epoca, con la fame, l’esclusione, la persecuzione, ma anche con l’affetto fine a se stesso e con la più pura solidarietà. Il percorso politico di presa di coscienza e di responsabilizzazione sociale del giovane principe,[36] che si concluderà con una opportuna e onesta abdicazione, trova nella pedagogia dell’esperienza subita dal cane la via più concreta per articolarsi.

Lo spiazzamento del punto di vista che questa trasformazione offre è anche per Lady, protagonista dell’omonimo romanzo di Melvin Burgess, un’efficace lente per guardare al mondo degli uomini e delle donne della nostra epoca. Qui, la feroce critica dell’esistenza borghese,[37] accolta e rigettata da molti critici come una vera e propria provocazione, ha approdi completamente divergenti rispetto a quelli “politicamente corretti” rinvenuti nella storia precedente. La cagna Lady in cui Sandra Francy, adolescente di Manchester inquieta e avida di esperienze di vita, è stata mutata, trova nella piena fisicità di questa condizione le motivazioni per una revisione critica radicale della propria esistenza: nelle discussioni che animano il gruppo di cani ai quali Lady si affilia, famiglia, amicizie, studi, lavoro, carriera, maternità… subiscono una completa messa in discussione che porterà fino al rifiuto della condizione umana. Il romanzo, il più prossimo tra quelli rivolti agli adolescenti alla filosofia di vita punk, documenta senza alcuna attenuazione la ribellione totale contro il progetto complessivo di regole che tengono in piedi gli istituti sociali fondanti la vita borghese; il loro rigetto apre la strada a un modello di esistenza pre-utopico e pre-politico che viene così sintetizzato:

E poi pensai a una cagnetta sotto il cielo notturno, il pelo umido di rugiada: una cagnetta che scodella una cucciolata via l’altra e si addolora senza disperazione. La sua vita non è ansia e lavoro: è lealtà e sangue, paura e amore, breve passione, un’altra cucciolata da amare e abbandonare. Tiene amore e morte stretti fra i denti: si accoppia, va a caccia e infine muore in una chiazza di sangue sotto le ruote di un camion. E pensai: non voglio ridiventare un essere umano. Tanto, in effetti non lo sono mai stata. Voglio vivere alla giornata, felice, e poi morire. Non voglio invecchiare. Né lavorare. Né essere responsabile. Voglio essere un cane![38]

  

Ma non è solo al coacervo di pulsioni sovvertitrici e destabilizzatici che viene ascritto il protagonismo animale nelle storie contemporanee; anzi le bestie si trovano più spesso a giocare ruoli politicamente strutturati e socialmente “costruttivi”, a rappresentare esempi di ragionevolezza e alta “umanità”, di fronte alla debolezza e al degrado morale che investe e travolge gli esseri umani. Il mondo, spesso, più che dai ragazzini, nella narrativa contemporanea è salvato proprio dagli animali.

I due che agiscono in missione segreta a Villa Incubo, un grasso gatto vanesio e un corvo spennacchiato sono in realtà un estremo avamposto del Gran Consiglio degli animali, posto in quel luogo sinistro per controllare l’operato del mago Belzebù Malospirito, che di mestiere esercita la furia distruttrice della magia nera su natura e animali.[39] Nell’irriducibile poetica ecologista praticata da Michael Ende, da la Storia infinita a questa esemplare Notte dei desideri, i “minori”, animali o ragazzini, giocano un ruolo che è precluso ai grandi, facili prede delle brame sataniche del potere e del denaro. La loro maggiore vicinanza allo “stato di natura” li porta a vegliare sulle sue sorti, a lottare contro quei pericoli che Ende individua in un combinato micidiale: la zia, che con il mago complotta, è semplicemente una “strega della finanza” o “la forza del Danaro”, mentre il “mago di laboratorio” non è che “la forza della Scienza” e, come mestamente conclude il corvo Jacopo, quando queste forze “si mettono assieme – buonanotte – allora sì che sulla Terra si fa buio.”[40].

Nel 1949 Erich Kästner, lo scrittore – con Gianni Rodari – più convintamene e consapevolmente utopista della letteratura per ragazzi contemporanea, allestisce ne La conferenza degli animali un mordace e attualissimo teatrino della politica internazionale, affidando agli animali il compito di denunciare l’inconcludenza dei tentativi operati dalle diplomazie di tutte le nazioni di pervenire a concreti accordi di pace, in un mondo segnato ancora dalle ferite della Seconda guerra mondiale. In questa situazione l’attenzione alle difficili condizioni di vita dei bambini dell’epoca è per Kästner prioritaria, e questa preoccupazione è anche il leit-motiv che spinge l’elefante Oscar e altri animali di buona volontà a convocare la contro-conferenza di delegati, “dai bipedi sino ai millepiedi”, al Grattacielo degli Animali in contemporanea e in collegamento televisivo con l’ennesima riunione dei capi di stato che si tiene a Città del Capo, per tentare di porre fine a quello stato di permanente distruzione che caratterizza l’operato degli uomini, e l’ancor più sconcertante loro impotenza di fronte alle soluzioni: “Ogni volta che cercano di fare qualcosa, riescono a costruire solo una torre di Babele!”[41]

Ma la proposta avanzata dagli animali di tagliare alla radice ogni motivo di contenzioso tra le nazioni sopprimendo il concetto stesso di Stato e conseguentemente abbattendo frontiere e smobilitando eserciti non può essere accolta dai capi di stato e dai militari riuniti a Città del Capo; la radicalità di tale soluzione può essere raggiunta solamente dopo una durissima lotta che non escluda alcun colpo basso: solo la scomparsa dalle case di tutti i bambini del mondo, estremo ricatto messo in atto dai tenaci animali, consente il raggiungimento dell’obiettivo.[42]

È interessante osservare come Kästner, già nell’immediato dopoguerra, sia consapevole dell’importanza di un uso spregiudicato di televisione e radio nella battaglia politica, e come il suo incedere in questo agone assuma i caratteri di un certo populismo che in quegli anni faceva il suo ingresso in politica e che era destinato in futuro a grandi sviluppi: gli animali giocano infatti le loro carte rivolgendosi, attraverso i media, direttamente ai cittadini comuni e fanno leva sulla delegittimazione dei loro governi. L’ultimo discorso tenuto dall’elefante Oscar ai delegati e indirizzato a tutti gli uomini è da questo punto di vista opera da manuale:

Poiché anche noi siamo genitori, vi comprendiamo e vi avremmo volentieri risparmiato questo dolore. Ma non ci restava altro da fare. Non siamo noi i colpevoli di quello che è successo, ma lo sono i vostri uomini di stato. Sono loro che dovete ringraziare. La nostra pazienza è esaurita. Non vogliamo assistere più a lungo, impotenti, al modo in cui i vostri governi mettono in gioco con continue beghe e guerre, e con la vostra perfidia e la vostra spilorceria, il futuro che ci sta tanto a cuore, di quei vostri bambini che tanto amiamo. Nei vostri codici c’è una legge che stabilisce che i genitori incapaci possono essere interdetti, cioè che si possono togliere loro i figli per affidarli a educatori adatti. Noi abbiamo fatto uso di questa vostra legge e abbiamo interdetto i vostri governi.[43]

Ma Kästner è scrittore abituato anche a cambi radicali di registro: nel 35 di maggio ci propone Negro Kaballo, un animale protagonista distante da quei modelli di impegno e seriosità osservati nella Conferenza. Il quadrupede con la paglietta è guida-accompagnatore di Corrado e dello zio Sulfurio in viaggio verso i mari del Sud; un viaggio che ha i tratti di un’utopia gentile, scanzonata, leggera, e soprattutto basata sul potere della fantasia, posta al servizio del desiderio, di operare prodigi, come quello di passare attraverso un armadio del XV secolo (Narnia insegna) verso un’altra dimensione dove la strada per i mari del Sud è costellata di mitici luoghi, dal Paese della Pacchia al Mondo alla rovescia riservato ai bambini, non trascurando l’attraversamento di esemplari luoghi per adulti incoscienti, quali sono il castello “Il passato degli eroi” o Elettropoli, catastrofica città ultra-automatizzata.[44]

L’utopia è costituzionalmente semplificatoria, e nel compito affidato agli animali di salvare il mondo si ritrova spesso questo carattere. Talvolta sono gli equilibri ecologici a essere sovvertiti da un’utopia ingenua che attraversa varie opere, e riesce a mettere d’accordo prede e predatori in un improbabile, ma affascinante, stato di natura primordiale a cui si può fare ritorno.

Commentando una favola di La Fontaine, che ha per protagonista una capretta fuggita dal suo padrone e finita nelle grinfie del lupo, e in particolare la fantasiosa interpretazione e riscrittura di questa storia ad opera di bambini di una classe elementare del bassa padana negli anni ’60, Gianni Rodari riconosce proprio in questa operazione l’essenza della storia utopistica, perché‚ “nella natura le capre non faranno mai questo ma è giusto che lo facciano nell'immaginazione di questi bambini, anche l'utopia ha un suo valore educativo. Se nessuno sognasse niente di meglio il mondo si fermerebbe dov'è, non ci sarebbe più nessun cambiamento".[45]

È il tipo di rovesciamento che si compie, ad esempio, in una delle tre storie del romanzo Cinque bambini e tre mondi, di Ada Prospero Gobetti, quella ambientata nel paese di Selvaggità, sotto il regno del Gatto Mammone, dove vige il principio del più forte e la ragione è sempre del più forte. Qui, naturalmente, i conigli sono divorati dalle volpi, le volpi dai leoni, e i leoni sono atterriti dai serpenti a sonagli… insomma tutti gli animali si comportano normalmente, sono malvagi e crudeli, si odiano e si scannano tra di loro; solo un pazzo come l’elefante Bortolone può pensare di convincerli ad andare d’amore e d’accordo, e a fare fronte comune contro i Lupi Mannari, detentori del potere in nome del Gatto Mammone. Grazie all’opera riparatrice di Silvia e Gianni, i due bambini protagonisti, approdati magicamente in quel di Selvaggità, si svelerà l’essenza del Gatto Mammone, ovvero un simulacro creato dall'egoismo dei lupi e sostenuto dall’ignoranza e dalla paura di tutti gli altri.

Il paese di utopia che qui si instaurerà ha tratti che ricordano luoghi meravigliosi accasati sotto il regno di Cuccagna: non ci sarà bisogno di lottare e di faticare per poter mangiare, perché il cibo – adatto a soddisfare esigenze e gusti di tutti, carnivori ed erbivori –[46] crescerà sugli alberi e per gli animali concordi si tratterà di organizzarne saggiamente la distribuzione. Ecco come si presenta il paese, sotto un alone di bontà, sicurezza e gioia, quando i due bambini sono pronti per lasciarlo:

Dinanzi a loro, accanto e sotto gli alberi del cibo, che protendevano i rami carichi di vivande saporite, tutti gli animali dormivano; e si vedevano gli incontri, gli accostamenti più curiosi e impensati. Un coniglietto dormiva rannicchiato tra le zampe di una volpe, accarezzando con le lunghe orecchie grigie il fulvo musetto di lei. Una tigre e una zebra dormivano fianco a fianco su uno strato di morbido muschio, e un medesimo respiro calmo sollevava la pelle a strisce grigie e nere e quella striata di nero e di giallo. Un grosso serpente a sonagli aveva fatto con le sue spire una comoda alcova in cui dormiva una mangusta, mollemente adagiata. Una pantera, arrotolata su se stessa, dava di quando in quando, nel sonno, una leccata sulla testa di un cerbiatto che aveva appena finito di allattare.[47]

La fantasia, posta al servizio dell’afflato morale che permea tutte e tre le storie raccolte nel volume della Prospero Gobetti, ambientate nei mondi d’Ordindoro, di Selvaggità e di Rotomac, riassumibile nel messaggio “lavorare insieme d'amore e d'accordo per vivere in pace e letizia”, realizza quel ribaltamento degli equilibri ecologici e quell’armonizzazione della natura funzionali a un progetto utopico che ha trovato molte altre adesioni.

Amos Oz in D’un tratto nel folto del bosco, fa dell’armonia e della solidarietà fra le creature, della condivisione di una condizione comune di sopravvivenza,[48] l’attrattiva del mondo creato da Nihi, il reietto, nel profondo del bosco sulla montagna. È questa una società “nuova”, nata da una fuga della vittima e dei suoi amici animali dalla civiltà degli uomini che escludono, tormentano, disprezzano, una società pacificata da una alternativa alimentare al rapporto tra predatori e prede (i frutti di una pianticella, i “carnemoni” che sono consumati con gran gusto dai carnivori) per produrre uno stato di concordia tra gli animali. Un mondo separato che però potrebbe tornare a sciogliersi nel contesto civile di provenienza, se i due bambini che ne hanno penetrato il mistero e che tornano al villaggio riusciranno a piantare i semi della comprensione negli animi della gente:

‘Bisogna dirlo ad Almon. Bisogna dirlo a Emanuela. Bisogna dirlo a Danir’. Maya aggiunse: ‘Non solo a loro, Mati. Noi dobbiamo dirlo a tutti. A mia madre. Agli anziani. Ai tuoi genitori. E non sarà facile’. Mati: ‘Diranno di noi che ci siamo presi il nitrillo’.[49]

L’oscuro oggetto del desiderio

L’incipit con il quale i Grimm hanno esplicitato il debito della fiaba nei confronti del desiderio nasconde, nella sua linearità, un complesso sistema di rapporti caratterizzati da non poca ambivalenza, che gli stessi fratelli tedeschi hanno ampiamente esperito. Il desiderio, oltre che principio motore della fabulazione è, a volte, vero e proprio oggetto della stessa. Ne Le tre voglie di Madame Le Prince de Beaumont, come ne Il povero e il ricco dei Grimm, – esempi significativi, ognuno per la sua parte, delle due principali redazioni in cui il motivo,[50] presente nelle leggende di molti popoli e nella letteratura dell’antichità greco-romana, è stato sviluppato[51] – sono pulsione e comportamento desiderante ad occupare il centro della scena.

Nella fiaba della de Beaumont[52] l’occasione, offerta da una fata a marito e moglie di modesta condizione sociale di esprimere tre desideri, è sprecata per l’avventatezza dei due coniugi: alla moglie, che non avrebbe disdegnato di esser “bella, ricca e gran signora”, sfugge, per la tensione di un così impegnativo pensamento, una banale voglia di buristo, che consuma il primo desiderio e provoca l’innesco del secondo. È, infatti, l’irrefrenabile rabbia dell’uomo ad augurare alla moglie che il buristo le si attacchi al naso, auspicio questo che puntualmente si avvera, mettendo giocoforza in essere il terzo e ultimo desiderio: il ritorno del naso alla normalità.

Sotto lo sguardo impietoso e divertito della narratrice si consuma una innocua tragedia familiare, la cui acconcia veste comico-satirica, evidenzia più di una morale. Ovviamente, in primo luogo, la condanna di egoistici e frivoli desideri,[53] avanzati dalla donna e rintuzzati dal marito (per lui, “meglio, molto meglio sarebbe chiedere salute, allegria e una vita lunga”), la cui saggezza si rivela di breve durata; sarà proprio l’irrazionalità del suo comportamento (il lasciarsi prendere dalla rabbia) a causare la punizione più severa con la perdita irrevocabile del “premio”.

Se rigore, morigeratezza e accettazione del proprio stato sociale sembrano didascalicamente riempire l’orizzonte morale di questa breve, ma esemplare storia (“è meglio avere meno voglie e prendere le cose come vengono, come Dio ce le manda”), non sfugge quanto spazio rimanga per una ferma condanna della pericolosità, individuale e sociale, del desiderio, che si realizza nel mostrarne i molti rischi dovuti a quella profonda e oscura ambiguità che lo caratterizza. Ambiguità che non può essere sciolta; le passioni e gli impulsi che motivano e danno forza al desiderio sono gli stessi che ne impediscono il contenimento e l’uso razionale: il marito che agisce in questo prototipo letterario e i protagonisti delle innumerevoli storie che ne sono derivate, debbono la frustrazione delle egoistiche aspettative di miglioramento delle loro vite, alla perdita di lucidità che la passione e l’impulso provocano nel loro comportamento. Una perdita di controllo che si riversa sui fini della pulsione desiderante: in questo caso, come in altri, strumento attraverso il quale è concretizzabile un rivolgimento totale delle proprie condizioni di vita e l’accesso a un nuovo mondo di soddisfazioni e piaceri, finisce drammaticamente per implodere di fronte alla necessità di una sua esplicitazione. L’invito a definire le proprie priorità e ambizioni, insomma a dettare i propri desideri, porta in un ambito di morale cristiana pervadente e condivisa dal narratore alla cristallizzazione delle pulsioni desideranti e al loro sbriciolamento. Viene qui messa in mostra e puntualmente rigettata – anche se attenuata dalle intenzioni burlesche nella tradizione dei fabliax – la liceità del desiderare in quanto scelta cosciente e consapevole, attraverso l’accentuazione parodistica di quel corredo di irresolutezza e di ansia che ne fanno infine una pratica fortemente instabile.

Ne sanno qualcosa Totò e altri personaggi del romanzo di Zavattini, ispiratore del film Miracolo a Milano, per i quali il potere conferito dal desiderio di produrre “miracoli” risulta molto difficile da gestire: il ricco e astuto signor Mobic, sempre deciso nelle sue cose, di fronte alla necessità di esprimere, viene colto da un attacco di “afasia” da desiderio[54], e lo stesso Totò appena “cominciava a fare un progetto ne nasceva un altro e se ne accavallava un terzo, la sua testa era piena di trallaratone come quella del signor Mobic quando vide la stella cadente.”[55]

Laddove questo contesto etico e religioso non è operante, come nella fiaba delle Mille a una notte che ha per protagonista un Aladino briccone e fannullone alle prese con la lampada magica, siamo di fronte a un desiderare senza alcuna limitazione o pregiudizio; qui, casomai, il limite è prosaicamente spostato nel consesso sociale, ricco di altri soggetti desideranti da cui guardarsi perché è da questi che può venire la più terrena delle limitazioni, la sottrazione della lampada, promessa inesauribile di ogni possibile piacere.

Per quanto corretta, l’interpretazione moralistica di mera condanna dei desideri egoisti di questo tipo di storie (avanzata, ad esempio, con la “componente velleitaristica” da Stith Thompson e più sopra richiamata), da sola ci pare riduttiva rispetto a un più ampio complesso di significati.

Insomma, il desiderio che ne muove i personaggi pare azionare come una sorta di “motore immobile” la fiaba, il cui statuto è lì a vegliare che, come tale, questo principio creativo rimanga, quasi occultato sotto finte spoglie, operante sotto una superficie di casualità, incoscienza, inconsapevolezza e brutale efficienza, ma pur sempre controllato e gestito dallo sguardo vigile e onnisciente del narratore.

La fortuna e l’insistenza di questo motivo in tutta la storia letteraria, e ancora in quella contemporanea, senza limitazioni di genere, sono comprovate da innumerevoli riproposte, revisioni e variazioni nelle quali viene al pettine il nodo di quella oscurità dell’oggetto del desiderio adombrato nella fiaba popolare e di tradizione letteraria.

Edith Nesbit, autrice assai interessante ai nostri scopi, per motivi che attengono anche alla sua storia personale e politica,[56] nel romanzo Cinque bambini e la cosa, scritto e ambientato nell’Inghilterra di inizio Novecento, ci offre un vero e proprio compendio sul tema dell’esaudimento dei desideri sviluppando quanto impostato nella tradizione fiabica. Il Sabbiofilos, un folletto estratto casualmente da una cava di ghiaia non distante dalla casa di campagna dove i fratelli Cyril, Anthea, Jane, Robert e Hilary il Cucciolo, si sono trasferiti, può esaudire i desideri dei cinque bambini compiendo ogni sorta di prodigio; la magia è destinata a durare però fino al tramonto, dopo di che le cose desiderate svaniscono e tutto torna alla normalità. Ma i desideri – ci avverte l’autrice, prima ancora di vederne esaudito uno da un impaziente Sabbiofilos – non sono semplici da esprimere:

Senz’altro anche a voi sarà capitato spesso di pensare alle cose meravigliose che fareste, se poteste avere esauditi tre desideri, e di sicuro avete commiserato il vecchio e sua moglie – nella storia dei tre desideri – sicuri che se fosse toccato a voi avreste saputo tirar fuori, senza un attimo di esitazione, dei desideri veramente utili. Anche i quattro bambini avevano parlato tante volte di questo argomento ma, ora che avevano una simile opportunità , improvvisamente non erano capaci di decidersi.[57]

Ci provano allora, con un po’ di improvvisazione, le due bambine e l’essere “belli come il sole” è il risultato di una trasformazione che al gruppo non procurerà felicità, ma guai, così come quasi tutte le altre magie che nei dieci giorni successivi seguiranno. È sempre una fortuna che la sera arrivi a mettere a posto la situazione e a ristabilire l’ordine violato, con il ritorno alla rassicurante e comoda esistenza borghese, assicurata dalla tenace gestione familiare di una simpatica Martha, comprensiva bambinaia/governante di casa.

Anche se più meditati, più studiati collettivamente, i successivi desideri non possono che rispettare la scansione offerta dalla tradizione fiabica, richiamata fin dall’inizio dall’autrice: per primi, come abbiamo visto, bellezza e ricchezza (nel caso dei cinque fratelli, “essere ricchi sfondati, più di quanto si possa sognare”[58]); e sono ovviamente inutili gli accenni imbarazzati offerti a mezza voce dal folletto, in veste di narratore sapiente, a pensare “altro”[59]. Infatti, non sempre è oro ciò che riluce, specialmente se quello messo magicamente a disposizione dei fratellini non è espresso in sovrane, la moneta corrente, ma in ghinee, conio che risulta per i bambini quasi impossibile da convertire nell’auspicato “sacco di cose”. Ecco dunque irrompere il ribaltamento operante nei mondi alla rovescia, per cui una norma che vale a tutti gli effetti nella nostra realtà (“il denaro è difficile da guadagnare e facile da spendere”) qui si trasforma con effetti esilaranti nel suo opposto (“facilissimo da guadagnare … ma quasi impossibile da spendere”).

Inutile dire come, in questo ancora godibilissimo romanzo, l’escursione a tutto campo tra svariati luoghi di appetizione si trasformi in un’odissea di insoddisfazioni, dando così ulteriori alimenti al nostro motivo letterario. Il focus dell’opera, semmai, è spostato sul tentativo di una ricerca di desideri “utili sul serio” che, pur sorretto da un’impeccabile logica vittoriana agita dai bambini protagonisti, non sfugge al destino riservato a tale quest.

Da un lato incontriamo la difficoltà della messa a fuoco degli obiettivi, dovuta a quella individualistica cecità dei fini (per Anthea l’esaudimento dei desideri “è una cosa così meravigliosa… un’occasione così splendida, così unica … che è un peccato che siano tutti sprecati solo perché noi siamo troppo sciocchi per sapere casa vogliamo”)[60] che la Nesbit pare voglia riportare, pur non spingendosi molto avanti in questo tentativo, a una dimensione più collettiva. La stessa terminologia di “utilità”, usata a proposito dei desideri, è un concetto ancora operante in quegli anni in ambito di filosofia della morale, riportato in auge nella sua accezione di “utilità generale” dalla serrata critica a cui John Stuart Mill aveva sottoposto la dottrina di Jeremy Bentham, tutta basata sull’interesse egoistico dei singoli individui; sull’argomento, questa querelle non poteva non essere un punto di riferimento obbligato per la progressista inglese.

Dall’altro, un nuovo elemento caratterizza questa riflessione, e ciò ha a che fare con il tema della realizzazione: tutti i desideri dei cinque bambini quando si concretizzano nella realtà risultano insoddisfacenti, anzi gli oggetti del desiderio, caricati di forti aspettative vengono da questa realizzazione traditi, per vari motivi, tra i quali risultano fondamentali l’inevitabile incontrollabilità del risultato, la sua imprevedibilità e alterità, e la deludente riduzione “in scala”, in termine di dimensione e di valore che il sogno subisce.

In questo curioso laboratorio narrativo allestito dalla socialista fabiana, dove con gli strumenti del fantastico si maneggia la realtà e le sue determinazioni anche filosofico-politiche, come non intravedere, al di là delle abili diversioni umoristiche, la paura del riformatore di veder vanificati dalla realtà i propri sogni. Il Sabbiofilos vuole, come uno degli ultimi desideri dei bambini, che essi non raccontino mai niente di lui agli adulti perché se ciò avvenisse non avrebbe più un attimo di pace:

Mi metterebbero in una gabbia e stai certa che non chiederebbero delle sciocchezze come voi, ma cose serie e importanti, e gli scienziati scoprirebbero qualche stratagemma per far durare le cose dopo il tramonto, questo è certo. Chiederebbero tasse sul reddito, progressive, pensioni di vecchiaia e il suffragio maschile [sic.], la scuola secondaria gratuita e noiosaggini del genere e potete star sicure che il mondo intero andrebbe a gambe all’aria.[61]

Siamo, più o meno, negli anni in cui anche Freud riflette sul concetto di desiderio, proiettandolo sul piano onirico; questa proiezione sarebbe stata uno dei suoi più interessanti contributi teorici, e nello stesso tempo uno dei suoi più forti limiti, come è risultato chiaro nella critica alla psicoanalisi freudiana che è stata avanzata da Jacques Lacan e Gilles Deleuze.

Certe opere rivolte ai bambini sembrano avere, talvolta, il dono di rappresentare in forma narrativa semplice la densità e la complessità di certi concetti, e il loro costituirsi nella storia del pensiero. Come L'albero dei desideri – fiaba scritta in copia unica, alla maniera di Carroll, da William Faulkner nel 1927, per la bimba di colei che sarebbe diventata la sua compagna – dove desiderio e sogno trovano un singolare connubio.

L’albero che tutti vorrebbero raggiungere è meta della ricerca di Dulcie, assistita nel giorno del suo ottavo compleanno da un bizzarro ragazzo dalla testa rossa e dalle molte risorse magiche, un viaggio-sogno intrapreso in assortita compagnia. Ma questa meta presenta notevoli difficoltà di riconoscimento, tanto da far dubitare i cercatori della sua esistenza, nonostante la vera e propria sarabanda dei desideri che sembra provenire dall’incontro con un imponente albero dalle foglie bianche nel cuore della foresta.

Il desiderio è qui, freudianamente, sfuggente ed enigmatico, proprio come la realtà creata nel sogno. È un vero peccato che avrà bisogno, per esistere e ottenere legittimità, di essere purificato da un San Francesco, vero deus ex machina, intervenuto per mettere a posto le cose, chiarire i rapporti tra egoismo e altruismo e distribuire secondo merito.[62]

Diavolo di un desiderio!

Nel territorio di ombra che molta letteratura stende intorno al potere dei sogni e delle aspettative umane si può compiere il sacrificio estremo del desiderio; questo percorso porta inevitabilmente tra le grinfie del demonio, quello caro alla tradizione cristiana, il vecchio Satana e la sua corte, protagonisti letterariamente adatti a molte bisogne. Chi, d’altra parte, meglio di Belzebù riesce a veder chiaro nei desideri? non sono forse, da sempre, la sua arma più letale? Chi meglio di Lucifero è in grado di togliere le pulsioni dal fuoco senza scottarsi le dita, e di risolvere, assolvendo da superflue responsabilità, un’umanità non adatta a maneggiarle?

L’argomento è troppo esteso per poter essere ridotto ai nostri scopi, ci possiamo solo riferire a una lunga e complessa tradizione che, poggiata saldamente sopra il mito di Faust, associa all’esaudimento dei desideri il rischio della dannazione e il peccato della perdizione perpetue. Una tradizione ripresa e riproposta anche dalla letteratura per ragazzi in varie forme.

Già Stevenson, in un celebre racconto, raccolto nelle storie dei mari del Sud,[63] ci offre una storia esemplare e rimette in funzione nella narrativa un meccanismo di provata efficacia: Keawe, marinaio dell’Isola di Hawaii, acquista per pochi dollari a San Francisco una bottiglia contenente un demone pronto a mettersi agli ordini del proprietario (l’hanno posseduta, tra gli altri, il mitico Prete Gianni, Napoleone, il capitano Cook…) e a esaudire tutti i suoi desideri, salvo quello di allungargli la vita. Il possesso dell’oggetto al momento della morte comporterà la punizione delle fiamme dell’inferno e la bottiglia non potrà essere alienata se non a un prezzo inferiore a quello d’acquisto… Ecco quindi transitare nella modernità nuovamente desideri e loro esaudimento attraverso il patto con il diavolo o con suoi emissari, contratto questo che, finalmente, “per via giuridica” può assimilare pulsione desiderante e libido, e schiacciarle sotto il sinistro fascino del loro destino demoniaco.

Nel desiderio pare esserci qualcosa di oscuro, di malato, nel cui humus i demoni possono crescere e diventare potenti. Il demone Stands ha un aspetto trasandato, gli occhi ingenui e un sorriso enigmatico stampato sulle labbra. È arrivato in quella cittadina noiosa, dismessa dall’industria estrattiva, perché qualcuno lo ha “chiamato”; qualcuno desidera e lui è venuto a dare “tutto quello che volete e anche di più!”[64] Risponde a una confusa e appicicosa speranza di cambiamento, a un’ansia di ricostruzione e di riscatto che la comunità nemmeno ha il coraggio di esprimere ad alta voce, ma sa solo segretamente di sentire. Sands è un parassita della fantasia infantile, perché, come finalmente scoprono i pochi giovani resistenti:

Gli adulti desiderano soltanto i soldi e la salute… ‘E nuovi aspirapolvere, forni a microonde, televisori ultrapiatti’ pensò Jules con un brivido. – Ma con i bambini – continuò Brookman – non ci sono limiti. Il loro potere è l’immaginazione sfrenata … Quello che non sanno è che più vogliono, più desideri esprimono, più lui diventa forte. – Vuoi dire che accresce il proprio potere a spese dei bambini? … – O di chiunque altro dotato di una forte immaginazione? Di chiunque desideri ardentemente qualcosa?[65]

Il potere del desiderio pare qui ripreso direttamente dall’incipit grimmiano che ha sostituito il “c’era una volta”; però con una diversa declinazione, maturata attraverso tutta una lunga storia, che ne ha privilegiato i lati oscuri, i pericoli, le dimensioni di perdizione di cui lo ha caricato il pensiero asservito al principio di realtà.

In questa tradizione confluiscono, maturano e si esaltano molte componenti del tema che abbiamo fin qui accennato. Brillantemente ripreso ed esplicitato da due autori contemporanei, Terry Pratchett e Henny Fortuin, il mito inesauribile di Faust ci investe con i suoi dilemmi e ci conquista con il suo fascino.

Molto importa che qui siano solo ragazzini a maneggiare incautamente sogni e desideri. Il demonologo Thursley, in una esilarante puntata della saga dei Mondi Disco di Pratchet,[66] non ha nemmeno 14 anni quando, nel tentativo di evocare un potente demone che possa dare una svolta alla sua giovane vita esaudendo una essenziale lista di tre desideri,[67] nel cerchio magico tracciato per contenerlo, riesce a intrappolare solo un mago senza troppi poteri, tal Scuotivento, confinato per punizione nelle “dimensioni sotterranee” in una delle avventure precedenti. Forse a causa della giovane età, Thursley non ha chiaro fino in fondo quanto il Mallificarum Sumpta Diabolicite Occularis, il Libro del Controllo Estremo che egli maneggia per sondare le regioni demoniache e per ottenere il potere, sia pericoloso; infatti, riflette Scuotivento “qualsiasi mago tanto brillante da sopravvivere cinque minuti era anche tanto brillante da capire che se c’era del potere nella demonologia, arrivava accompagnato dai demoni. Usarlo per i propri scopi sarebbe stato come cercare di ammazzare a bastonate i topi usando un serpente a sonagli.”[68]

La posta in gioco e il prezzo da pagare per l’ottenimento di “piaceri proibiti e oscure delizie” è pur sempre la perdita di sé, letterariamente tradotta nella tradizione della dannazione, l’assoluta e radicale alienazione della propria umanità a favore di forze oscure collocate al governo della più sotterranea delle regioni dell’immaginario. E la storia dei tre desideri – nella cui struttura si avvolge  la trama anche di questa scoppiettante e tutt’altro che banale storia fantasy – non è forse l’esempio perfetto per dimostrare tutto il diabolico spessore di un tale meccanismo? Dopo tutto, e sono parole del Re dei Demoni:

Il senso della storia dei tre desideri era fare in modo che il cliente ricevesse esattamente ciò che aveva richiesto ed esattamente ciò che non voleva affatto.[69]

Conseguentemente, nell’universo letterario creato da Pratchett l’Inferno è – in palese opposizione a una consumata tradizione fatta di laghi di sangue, ribollire di fornaci e risuonare di disumani ululati – nient’altro che un distillato di “una noia di qualità superiore”, uno stato di assoluta assenza di desiderio, una perdita totale di “scopo”, insomma “noia aggiunta ad altra noia [che] si avvolgeva su se stessa fino a diventare una immensa mazza che schiacciava e paralizzava ogni pensiero ed esperienza pestando l’eternità fino a ridurla a un cencio.”[70]

Sette Manziani, protagonista del romanzo di Fortuin, ne ha, invece, 11 di anni e molta più consapevolezza dei pericoli del suo coetaneo quando, nel 1557, incontra per la prima volta il diavolo, il marionettista Mastro Malo, che con la sua arte riesce a trasformare flosci fantocci in esseri viventi; Mastro Malo, seminatore di sogni e mietitore d’anime, che adesca con la promessa di poter dare tutto quello a cui anela il cuore del potenziale venditore. Come spiega al suo giovane apprendista:

A ogni spettacolo che facciamo seminiamo sogni nei cuori dei nostri spettatori. Bei sogni, sogni fantastici, ma anche sogni che incutono timore, brutti sogni. Di tutti i generi. E dopo essere stati seminati, i sogni crescono. Risvegliano desideri, spesso così grandi e potenti che c’è chi non riesce a opporvisi e fa di tutto, proprio di tutto, per realizzare i suoi desideri più profondi. E allora io sono in grado di provvedervi.[71]

Sette, il sognatore, vuole soprattutto una cosa: raggiungere la perfezione nell’arte del maestro, assaporare fino in fondo il successo e ottenere un teatro di marionette che porti il suo nome. E per realizzare questo sogno, dopo alcuni anni e molti tentennamenti giungerà a stipulare il patto: l’anima in cambio del successo e della fama sino alla morte. Ma il sogno, per Sette e per le molte altre cavie da laboratorio del desiderio, non può concretizzarsi che annullandosi, rivelando i suoi limiti e le sue pochezze; la piena soddisfazione del desiderio non è che una contraddizione in termini, la sua realizzazione risulta essere la sua negazione.

Uno dei destini che toccano ai giovani apprendisti stregoni della nostra narrativa contemporanea pare essere proprio quello di sperimentare fino in fondo la débacle del desiderio, provocata da quel paradosso per cui esso distrugge se stesso proprio mentre funziona a dovere.

Per Kevin, alias Quattrocchi Midas, preda dei bulli della sua scuola, sono un paio di occhiali magici entrati casualmente nella sua vita a farlo diventare (quasi) il padrone del mondo: avverano all’istante ogni suo volere, non curandosi di alcuna conseguenza, non fermandosi davanti a niente. Sembrano, perciò, fatti apposta per sfuggire di mano all’apprendista stregone: possono modificare il clima, far sparire le persone o agire inesorabilmente sul tempo, cambiando le regole, insomma, appartengono a pieno diritto a quella categoria di diavolerie inventate nella letteratura per mettere in scena la punizione perfetta da infliggere all’egoismo e all’arroganza dell’umanità.[72]

Utopia e desiderio tra Cuccagna ed economia dell’immaginario

Capita, nel seguire i tortuosi percorsi del desiderio, di imboccare strade senza sfondo, anche laddove non ci aspetteremmo di incontrarle. Chi direbbe che proprio tra gli eredi dei solari universi di Cuccagna, utopia nata nel tardo medioevo in un contesto di forte e aspro contrasto tra abbondanza e miseria per dare risposte a bisogni elementari di sopravvivenza, potesse covare il germe della destabilizzazione della pulsione desiderante?

Sempre Kevin, quel Quattrocchi Midas che, inforcata sul naso, ha come una portentosa chiave del mondo di Cuccagna, ci mostra uno dei possibili scenari della riduzione del desiderio conseguita attraverso l’iper-sollecitazione della merce. In garage con l’amico Josh, seduti a giocare al volante di due (non una di meno) Lamborghini rosse, materializzate grazie agli occhiali magici, è il momento delle domande:

Josh chiese all’amico: – E adesso? Fatto abbastanza incredibile, Kevin non seppe cosa rispondere. Adesso avevano tutto. Dal giocattolo più modesto al più costoso. La villetta era piena di oggetti fino al soffitto. Avevano giocato con i videogame, ascoltato decine di cd con i nuovi stereo, guardato film nell’home cinema, provato i distributori di caramelle, assaggiato cibi di ogni genere, indossato vestiti, saltato sui divani imbottiti, guidato virtualmente le due fuoriserie. Finalmente si erano stufati. E adesso? Kevin frugò nel suo cervello dolorante in cerca di un altro desiderio, ma trovò il nulla. Il mondo dei consumi e dei servizi non aveva altro da offrirgli.[73]

Quel mondo, quando Italo Calvino all’inizio degli anni ’60 scrive Marcovaldo, è appena arrivato alle soglie di una precoce maturazione, già forte è la girandola dei consumi e il desiderio della merce che la famiglia di Marcovaldo non può che subire come spettatrice, come chi non fa ancora parte di quell’esercito di consumatori nelle cui mani alle sei di sera cadeva la città, dopo che durante tutta la giornata “il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo.”[74] Il vortice del consumo, destinato a divorare se stesso, è comunque già innescato, la “folla consumatrice” è lì, in pista, pronta “a smantellare a rodere a palpare a far man bassa”;[75] per l’attento Calvino la gita al supermercato o la frenetica settimana di Babbo Natale non sono altro che i luoghi topici di una Cuccagna delle merci prossima a venire, anche per i ceti subalterni ai quali Marcovaldo appartiene di buon diritto.

Se la merce e i comportamenti che si esprimono nel consumo appaiono oggi tra le più temibili disgrazie che possono colpire il desiderio, lo dobbiamo agli sviluppi che hanno investito la sfera della produzione globalizzata e post-industriale, con l’instaurarsi di un’”economia dell’immaginario” o dei “beni simbolici” che, paradossalmente, facendo del desiderio il suo motore, ne ha svuotato di fatto il suo contenuto. Recenti studi sul feticismo della merce che caratterizza i nostri giorni ci avvertono che nell’epoca delle brand il fenomeno dell’occultamento della realtà nell’oggetto, nel feticcio appunto, si è generalizzato, normalizzato, tanto che il desiderio che si esprime nel consumo è diventato “intrinsecamente feticista”. Questo girare a vuoto del desiderio, questo continuo autoriferirsi, diventare “desiderio-di-nulla finisce per uccidere se stesso nella noia e nell’angoscia della pura coazione. Più che desiderare il nulla, il vuoto simbolico delle brand, si finisce a non desiderare più nulla. Il carattere ricorsivo e vuoto del desiderio diventa comportamento nichilistico.”[76]

Questa deriva ha aspetti che richiamano alla mente pur lontane immaginazioni su società ideali, vere e proprie tombe del desiderio, paradisi terrestri dove la pulsione si spegne, sciogliendosi nel mero piacere del consumo. Le società nella quali si realizzano tutti i desideri, estreme propaggini del principio di piacere, sono sempre state l’anticamera delle più spaventose distopie.

Il Paese de’ Balocchi prima irretisce con le lusinghe di un’esistenza votata al totale soddisfacimento, poi atterrisce allo spuntare delle sembianze bestiali e all’evidenza delle vere intenzioni dell’omino di burro, come il sogno di una Cuccagna virata in incubo.

Nell’eterno presente che si è instaurato nel luogo evocato in una storia raccontata da Horia a Arno, il tempo si è fermato. [77] Tutto si è cristallizzato in una piacevole giornata di primavera – un’eterna primavera che evoca, sinistramente, molte di quelle descritte in indimenticabili paradisi di Cuccagna – i bambini sono rimasti tali, i vecchi non riescono a morire, e tutti sono contenti “perché in quel luogo senza cambiamento non c’era più la vita, e dunque, non c’era più il dolore”.[78] La fine del dolore, dei rimpianti e dei desideri, una condizione che molti “saggi” ritengono la premessa per la felicità;[79] ma che qualcuno può non sopportare:

Solo un uomo si sentiva disperato: egli era l’unico che avesse conservato un desiderio e più il tempo passava, più questo desiderio si faceva forte, più l’uomo si sentiva infelice perché non poteva realizzarlo. Quell’uomo desiderava vedere il cielo stellato. Ricordava ancora, sia pure in modo confuso, che un tempo il sole tramontava e il cielo lentamente si spegneva. L’azzurro si faceva prima chiaro e poi s’incupiva, finché diventava di un nero diffuso e su questo nero, come diamanti vivi, pulsavano le stelle.[80]

Meglio, allora, scappare da questo eterno e vuoto presente, a costo di essere ritenuto pazzo, rifiutare il parere del saggio e inseguire il sogno, in un cammino verso il tempo, da recuperare insieme alla realtà e al senso della storia.

Lo stesso Rodari, assertore nel Pianeta degli alberi di Natale di un’utopia tutta fondata su progetto e creatività, semina non pochi dubbi sulle soluzioni di facile confezione e sulle accattivanti lusinghe della Cuccagna. Marco, il vivace ragazzino del Testaccio protagonista del viaggio sul cavallo a dondolo al Pianeta, osservandone il clima, che pare ammaliato da un’eterna primavera, con intensi profumi e delicati sapori, piogge di coriandoli che si sciolgono in bocca e altre amenità, ha uno spontaneo moto di ripulsa:

La scena era un tantino troppo dolce per i [suoi] gusti: finiva perfino per essere disgustosa. – È un paese per bambole, questo, – gli scappò detto. – Tra poco mi sembrerà di camminare sui vetri e di aver paura di romperli. E fra sé decise che, quando fosse stato sul punto di commuoversi, avrebbe fatto una visitina al Gran bazar Spaccatutto e si sarebbe sfogato a fracassare qualche armadio.[81]

In un denso capitolo conclusivo del già citato saggio di Demoulié, attraverso un’analisi basata su l’Utopia di Thomas More, Eros e civiltà di Marcuse, e la Teoria dei Quattro Movimenti. Il Nuovo Mondo Amoroso di Fourier, si mettono in chiaro i rapporti esistiti tra utopia e desiderio:

Marcuse scrive che la tendenza a ‘relegare possibilità reali nella terra di nessuno dell’utopia, è essa stessa un elemento essenziale dell’ideologia del principio di prestazione’. È vero, ma ciò non significa che l’utopia sia la massima espressione del desiderio, e nemmeno che non sia, coi pii desideri e l’angelismo che le sono propri, una macchina repressiva ancora più potente di quella della repressione culturale. A dire il vero, la politica del desiderio è tutto salvo un’utopia. E per converso, l’utopia, con il pretesto di soddisfare il desiderio, è tutto salvo una politica del desiderio. Lo vediamo nella Repubblica di Platone. Il progetto politico e filosofico ha uno scopo: strangolare e dominare la massa incontrollabile dei desideri e del popolo. Che cosa c’è, nell’utopia, di tanto mortale per il desiderio? Il principio di piacere, che è il principio politico con cui la tirannide schiaccia ogni visione utopica.[82]

Con questa conseguente denuncia dei rischi di un’utopia schiacciata dall’esigenza di garantire l’ordine sociale mediante la promessa del soddisfacimento di tutti i desideri, raggiungiamo un punto limite, in cui la pulsione desiderante, vitale solamente nella dimensione della ricerca incessante e inesauribile del suo fine e del suo oggetto, finisce per trovare la sua morte.

Ma lo “spazio al possibile” che la fiaba e molta narrativa per l’infanzia spalancano davanti ai loro ascoltatori e lettori rimane, per molti aspetti, uno spazio dei desideri, nel quale il percorso – pur accidentato e ambiguo, come ci siamo sforzati di dimostrare – verso una “società ideale”, un mondo migliore, o semplicemente un diverso destino, continua a  esercitare un intenso fascino, proprio come “al tempo che il desiderio serviva ancora a qualcosa…”.

[1]. L’etimologia rimanda ai termini greci ou (non) e topos (luogo), quindi riferisce a “non luogo” o “luogo che non esiste”, ma anche a eu topos, “luogo felice”.

[2]. È la definizione riportata nel dizionario Devoto-Oli.

[3]. Il “catalogo delle imperfezioni” riscontrabili nelle ipotesi di società utopistiche presenti nella storia politica e filosofica è assai ricco; Massimo Baldini, ad esempio, ne La storia delle utopie (Roma, Armando, 1994) ha provato a riassumere le più eclatanti: isolamento e autarchia, perfettismo e violenza, scomparsa della cellula familiare, totalitarismo, uniformità, scomparsa del futuro e del passato, onnipotenza della pedagogia, comunismo e egualitarismo, congelamento delle istituzioni, anestetizzazione della dimensione religiosa, misconoscimento dei conflitti sociali, privilegiamento di soluzioni semplicistiche, geometrizzazione dello spazio urbano, istituzionalismo… Ci pare calzante, a sintesi, la definizione di “assolutismo epistemico” usata recentemente da Roberto Casati a proposito dell’essenza di utopia (R. Casati, “Città ideale, figlia dell’ignoranza”, Il Sole-24 Ore Domenica, 15 ago. 2004, p. 27).

[4]. Il filosofo liberale Isaiah Berlin è, a questo proposito, categorico: “Non si può fare un’omelette senza rompere le uova. Da un secolo ad oggi si sono rotte molte uova, ma l’omelette non si è vista … Creare un’umanità per sempre giusta, felice, creativa, armoniosa: quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? Per fare questa omelette non c’è limite al numero di uova che si possono rompere” (A. Massarenti, “L’omelette di Isaiah Berlin”, Il Sole-24 Ore Domenica, cit., p. 27).

[5]. L. Perini, “Gli utopisti: delusioni della realtà, sogni dell’avvenire”, in C. Vivanti (curatore), Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, p. 305 (Annali; 4).

[6]. Loc. cit.

[7]. J. Zipes, Spezzare l’incantesimo: teorie radicali su fiabe e racconti popolari, Milano, Mondadori, 2004, p. 38.

[8]. Come ha fatto notare J. Zipes, la trasformazione della fiaba in bene di consumo, avvenuta nella nostra epoca a opera dell’industria culturale, attraverso un processo di strumentalizzazione consistente in una scissione e un’irreggimentazione della fantasia, ha di fatto occultato la vera funzione sociale delle fiabe e il loro potenziale liberatorio. Ecco perché egli propone, fin dal titolo della sua opera, di recuperarne valenze politica e sociale: “Il significato delle fiabe può essere completamente compreso solo se l’incantesimo della produzione di beni di consumo viene spezzato e la politica e l’impulso utopico dei racconti vengono collegati alle forze storico-sociali che li hanno contraddistinti prima, come forma popolare precapitalistica (Volksmärchen) nell’ambito di una tradizione orale e poi, alla fine del Settecento, come forma d’arte borghese con una sua specifica tradizione letteraria moderna (Kunstmärchen) in Francia e in Germania” (Ibid., p. 57). E anche: “Ricollocando le origini storiche dei racconti popolari e delle fiabe nell’ambito della politica e dei conflitti di classe, l’essenza della loro persistenza e vitalità potrà diventare più chiara e la loro magia sarà vista come parte della nostra tendenza immaginativa e insieme razionale a creare mondi nuovi che consentano uno sviluppo autonomo delle qualità umane. L’impulso utopico ha un suo fondamento concreto. ‘La magia nelle storie (se di magia si tratta) sta nel mostrare alle persone e alle creature ciò che veramente sono’ e, si potrebbe aggiungere, nel mostrare loro quello che sono realmente e realisticamente capaci di ottenere” (Ibid., p. 62). Si veda anche, dello stesso autore, Chi ha paura dei Fratelli Grimm: le fiabe e l’arte della sovversione, Milano, Mondatori, 2006.

[9]. L’opposizione si fonda sulla realtà di un approccio alternativo al riscatto: da un lato, quale portato dell’etica protestante (Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1977), esso è frutto del merito personale, conquistato attraverso il duro lavoro, dall’altro, sulla scorta delle tradizioni popolari burlesche e goderecce idealizzate nei paesi di Cuccagna, matura invece in assenza di lavoro, come prodotto di un colpo di fortuna, favorito da un intervento magico. Si leggano le pagine dedicate all’argomento da D. Richter, La luce azzurra: saggi sulla fiaba, Milano, Mondatori, 1995, in cui si prospettano tutta una serie di pregnanti opposizioni (quali, ad esempio: altruismo collettivo/egoismo individualistico; statalismo e organizzazione sociale/anarchia e caos; moderazione/sperpero).

[10]. Cfr. P. Camporesi, “Cultura popolare e cultura d’elite fra Medioevo e Rinascimento”, in Intellettuali e potere, cit., p. 81-157.

[11]. “Dal punto di vista storico, la ‘scoperta’ della cultura popolare è conseguenza della sua emarginazione di fatto”. Le fiabe “molto prima di essere circondate dai romantici di un’aura di presunta ‘primitività’, devono la loro esistenza a null’altro che a un processo di emarginazione sociale e culturale”, Cfr. D. Richter, Il paese di Cuccagna: storia di un'utopia popolare, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 143.

[12]. Si veda, per quel misto di impulsi all’eversione caotica e cieca, ma anche di bisogni di consolazione e di appagamento che le carnevalate rappresentavano per le classi subalterne, P. Camporesi, “Cultura popolare e cultura d’elite fra Medioevo e Rinascimento”, in Intellettuali e potere, cit., p. 94-95.

[13]. C. Demoulié, Il desiderio: storia e analisi di un concetto, Torino, Einaudi, 2002.

[14]. Si legga, al proposito, l’interessante saggio di G. Sissa, “L’atto nel desiderio”, in M. Pandolfi (curatore), Perché il corpo: utopia, sofferenza, desiderio, Roma, Meltemi, 1996, p. 99-120.

[15]. S. Calabrese, Fiaba, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 17.

[16]. Richter ha così scansionato il viaggio: 1. situazione di abbandono, privazione, compito da assolvere; 2. partenza dalla casa, uscita dal mondo consueto; 3. viaggio nell’aldilà, nell’altro mondo, nell’altrove dove si compiono atti eroici (a volte assistiti da aiutanti magici) e grazie al proprio coraggio e alla propria astuzia si superano i pericoli; 4. ritorno a casa e trasformazione del mondo consueto in qualcos’altro grazie ai doni portati in dote dal viaggio (Cfr. D. Richter, La luce azzurra, cit.)

[17]. Nel discorso di ringraziamento, pronunciato in occasione del premio H.C. Andersen insignitogli nell’aprile del 1970, Rodari dichiara: “Occorre una grande fantasia, una forte immaginazione … per immaginare cose che non esistono ancora e scoprirle, per immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo e mettersi a lavorare per costruirlo. Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi, essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo, gli può dare delle immagini anche per criticare il mondo”.

[18]. Il significato del termine latino desiderium è “cessare di contemplare gli astri”.

[19]. J. Gaarder, Cosa c'è dietro le stelle, Milano, Salani, 1999, p. 156.

[20]. S. Freud, Totem e tabù e altri scritti: 1912-1914, Torino, Boringhieri, 1966-1980, p. 89.

[21]. Ibid., p. 91.

[22]. Ibid., p. 95.

[23]. S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, Milano, il Saggiatore, 1994, p. 367-368.

[24]. Loc.  cit.

[25]. Come ha scritto Italo Calvino, le “fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi: sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini di una dialettica interna ad ogni vita; l’amore, incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto le spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste”, I. Calvino, Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1988, p. 19-20.

[26]. A. Nanetti, L’uomo che coltivava le comete, San Dorligo della Valle, EL, 2002, p. 8.

[27]. “Se non sei capace d’aspettare senza farti domande … non desideri abbastanza. E se non desideri abbastanza, perché dovresti coltivare le comete?”, Ibid., p. 77.

[28]. “– E se mio padre non torna? – Tu continua ad aspettare: non siamo noi che dobbiamo rinunciare ai sogni, sono loro che ci lasciano. – Si sente molto male quando se ne vanno? – Sì – disse l’uomo, – sempre. Ma dei sogni non possiamo fare a meno, sono quelli che danno senso alla vita”, Ibid., p. 90.

[29]. S. Colloredo, Isadora Duncan, San Dorligo della Valle, EL, 2006, p. 41-42. Sull’importanza nell’infanzia di non desistere dal perseguire i propri progetti si segnala anche il bel romanzo di J. Richter, Tutti i sogni portano al mare, Roma, Beisler, 2004.

[30]. Quando, all’apice del successo, assiste a Pietroburgo ai funerali delle vittime della repressione zarista, Isadora si chiede: “Che stupida ero diventata? Una stupida, piagnucolosa donnetta impellicciata che non aveva il coraggio di guardare l’orrore della realtà. Quelle madri e mogli che si trascinavano nella neve erano il mio stesso sangue. Erano le donne a cui, da ragazza, avrei voluto aprire le mie scuole. Liberarle volevo! Ricordi, Isadora? Affrancarle dagli uomini, dalla schiavitù domestica, da se stesse! Sogni stupidi, sogni infantili, forse, ma come ero migliore allora, quando pensavo a un mondo migliore!”, S. Colloredo, Isadora Duncan, cit., p. 107.

[31]. Cfr. M. Gagliardi (curatrice), Le stelle nascoste: mappa del desiderio nell’immaginario infantile, Venezia, Marsilio, 1997.

[32]. J. Piaget, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Torino, Boringhieri, 1973, p. 155-156. In conclusione di questo ragionamento Piaget ravvisa l’operatività di due egocentrismi, il logico e l’ontologico: “Allo stesso modo come costruisce la sua verità, il fanciullo costruisce la sua realtà: non ha il senso della resistenza delle cose più che non abbia quello della difficoltà delle dimostrazioni. Afferma senza prova e comanda senza limiti. La magia sul piano ontologico e la credenza immediata sul piano logico, la partecipazione sul piano dell’essere e la transduzione sul piano del ragionamento sono i due prodotti convergenti dello stesso fenomeno. Alla base della magia e della credenza immediata è la stessa illusione egocentrica: la confusione del proprio pensiero con quello degli altri, e la confusione dell’io col mondo esterno”, Ibid., p. 170-171.

[33]. Freud usa tre diverse parole per esprimere il concetto di desiderio: Wunch (nel senso di “augurio”), Lust (in quello di “piacere”, “gioia”), Begierde (nell’accezione di “appetito”, “brama”).

[34]. A. Ahlberg, La mia vita da cane, Firenze, Salani, 1989, p. 156.

[35]. U. Orlev, Com’è difficile essere un leone, Milano, Salani, 1999, p. 8.

[36]. Nel ricordo delle esortazioni paterne si compone il manifesto politico del principe-cane illuminato: “Non alzare troppo le tasse e danne poche ai contadini, o la miseria sommergerà il paese. Non lasciare senza controllo il borgomastro e il capo della polizia: non sono uomini ingiusti, ma vanno controllati perché le loro cariche possono portare anche un uomo giusto a essere crudele. Non staccarti mai dalla gente, dal popolo, non dimenticare mai di ascoltarli, di proteggerli, di difenderli: sono questi i compiti dove i governi acquistano dignità, altrimenti diventano arbitrio e tirannide”. S. De Mari, La bestia e la bella, Milano, Salani, 2003, p. 45-48.

[37]. “Ebbi l’impressione che la mia vita intera – non il passato ma il futuro – mi scorresse davanti agli occhi. Di nuovo a scuola, ad affannarmi per superare esami che avrei comunque passato a stento, per trovarmi uno schifo di lavoro in uno schifo di azienda, lunghe ore di fatica che lentamente mi avrebbero resa uguale a chiunque altro. Lavoro lavoro lavoro, imparando ogni giorno a fare cose che non sapevo fare, che non volevo fare, vivendo per i fine settimana e tre settimane di vacanze l’anno. Figli! Sudare e soffrire per scodellare un grasso pupo indifeso; preoccupazione ansia tensione. Mai abbastanza soldi per fare quello che desideri e appena sufficienti per fare quello che devi. Tornare a casa e lavorare ancora, e guardare tuo figlio che si trasforma in uno come tanti. Anni e anni di quella vita. Pannolini esami compiti lavoro, nei secoli dei secoli dei secoli e amen”. M. Burgess, Lady, Milano, Mondadori, 2002, p. 166.

[38]. Loc. cit.

[39]. M. Ende, La notte dei desideri, ovvero, Il satanarchibugiardinfernalcolico Grog di Magog, Firenze, Salani, 1990. Da contratto, il mago è tenuto ogni anno a distruggere “direttamente o indirettamente, sei diverse specie animali … nonché ad avvelenare sei fiumi differenti … a far morire almeno seimila alberi … e per finire: a introdurre sulla Terra ogni anno almeno una nuova pestilenza che faccia crepare gli uomini o le bestie … e a manipolare il clima del … Paese in modo tale da mettere sottosopra le stagioni e provocare o siccità o inondazioni”, Ibid., p. 15.

[40]. Ibid., p. 67.

[41]. E. Kästner, La conferenza degli animali, Milano, Mondadori, 1989, p. 9.

[42]. L’accordo firmato dai capi di stato ha il tono e i contenuti di un manifesto dell’utopismo: “1. Tutte le frontiere saranno eliminate … 2. I soldati e le armi di ogni tipo saranno aboliti. Non ci saranno mai più guerre. 3. La polizia incaricata del mantenimento dell’ordine sarà armata con archi e frecce. Il suo compito principale consisterà nel controllare che la scienza e la tecnica siano impegnate solo a scopi di pace. Non ci saranno mai più scienze al servizio della morte. 4. Il numero degli uffici pubblici, degli impiegati statali e dei classificatori per pratiche saranno ridotti al minimo indispensabile. Gli uffici pubblici sono fatti per gli uomini e non viceversa. 5. In futuro i dipendenti dello stato meglio pagati saranno gli insegnanti. Educare i bambini e farne dei veri uomini è il compito più alto e più difficile che ci sia.” Ibid., p. 100-101.

[43]. Ibid., p. 88.

[44]. E. Kästner, Il 35 di maggio, ovvero, Corrado alla ricerca dei mari del Sud, Milano, Salani, 2000.

[45]. G. Rodari, Libri d'oggi per ragazzi d'oggi: conferenza tenuta a Napoli presso il Circolo della Stampa il 18 maggio 1967, seguito da "Nove modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura", Genova, Il Melangolo, 2000, p. 25.

[46]. “Anche Gianni e Silvia approfittarono dell’invito. Gianni aveva sempre avuto una predilezione per il marzapane, e Silvia per il croccante, e ne gustarono a volontà. Baruffin si dimostrò un ottimo cliente per l’albero delle bistecche, e Gerundio per quello delle polpettine. Lo struzzo spilluzzicò un po’ d’erba e mandò giù diversi frutti pesanti e rotondi che sembravano fatti di pietra. La lucertola trovò il pasto adatto per lei sui rami di una bassa pianticella da cui pendevano bacche simili a minuscole formiche. E il topino si arrampicò sul tronco di un albero di formaggio dove rimase a rodere un frutto dopo l’altro, beato”, A. Prospero Gobetti, Cinque bambini e tre mondi, Milano, Il Castoro, 2004, p 133.

[47]. Ibid., p. 134.

[48]. A. Oz, D’un tratto nel folto del bosco, Milano, Feltrinelli, 2005. Maya, la protagonista del romanzo, riflette su questo concetto: “Tutti, uomini e rettili, insetti e pesci, tutti dormiamo e stiamo svegli, tutti cerchiamo di stare il meglio possibile, di non avere troppo caldo e nemmeno freddo, tutti, senza alcuna eccezione, facciamo del nostro meglio per conservare noi stessi e stiamo attenti a tutto quello che taglia e morde e punge …in fondo si potrebbe dire che tutti noi, senza alcuna eccezione, siamo tutti sulla stessa barca: non solo tutti i bambini, non solo tutto il villaggio, non solo tutte le persone, ma tutti gli esseri viventi”, Ibid., p. 42-43.

[49]. Ibid., p. 114.

[50]. Tipo 750°, I desideri, secondo il Types of the Folktales di Aarne-Thompson.

[51]. Cfr. S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, cit., e, J. Van der Kooi, “I desideri esauditi”, in T. Dekker; J. Van der Kooi; T. Meder, Dizionario delle fiabe e delle favole: origini, sviluppo, variazioni, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 12-130.

[52]. Questa fiaba attinge direttamente al modello in rima introdotto da Charles Perrault con Les souhaits ridicules.

[53]. Tra le innumerevoli riprese contemporanee di questo motivo ne segnaliamo due particolarmente gustose: E. Luzzati, La tarantella di Pulcinella, Novara, Interlinea, 2005, nella quale agisce un’incontentabile moglie della maschera napoletana, e G. Garofalo, I tre desideri, Milano, La Margherita, 2001, in cui è la fretta del genio imprigionato in una bottiglia di liberarsi, a produrre, per l’attonito cagnolino protagonista, una offerta esuberante di “beni”, assolutamente fuori portata rispetto ai semplici desideri dell’animale.

[54]. “Che cosa desiderava? Una sera mentre rincasava vide nel cielo di Bamba una stella cadente. Egli credeva al potere delle stelle cadenti per cui gridò subito: ‘Desidero…’ ma per l’emozione s’ingarbugliò, le parole si accavallarono e disse: ‘Desidero trallaratone.’ Chissà mai cosa voleva dire”, C. Zavattini, Totò il buono, Milano, Bompiani, 1980, p. 37.

[55]. Ibid., p. 59.

[56]. La Nesbit fu, insieme al marito, convinta riformista e partecipò nel 1884 alla fondazione della Fabian Society, associazione di ispirazione socialista che costituì il primo nucleo del Partito laburista inglese.

[57]. E. Nesbit, Cinque bambini e la cosa, Pordenone, Edizioni C’era una volta…, 1997, p. 20.

[58]. Ibid., p. 35.

[59]. Ad esempio, l’accenno a un desiderio “piccolo come buon umore, buon senso, educazione o quisquilie simili” (Ibid., p. 34), oppure, di fronte alla brama di ricchezza: “Ma non vi porterà niente di buono, statene certi” (Ibid., p. 35).

[60]. Ibid., p. 81.

[61]. Ibid., p. 203.

[62]. W. Faulkner, L’albero dei desideri, Milano, Mondadori, 1998.

[63]. R.L. Stevenson, Il diavolo nella bottiglia, Roma, Armando, 2000.

[64]. C. Westwood, Una luce nel buio, Milano, Mondadori, 2000, p. 5.

[65]. Ibid., p.113.

[66]. T. Pratchett, Eric, Milano, Salani, 2006.

[67]. “’Ti ordino… a te comando… di, oh, esaudire tre miei desideri. Sì. Voglio il potere sui regni del mondo, voglio incontrare la più bella donna che sia mai vissuta e voglio vivere per sempre’. ‘Tutto qui?’ domandò Scuotivento. ‘Sì’. ‘Oh, non c’è problema’ commentò Scuotivento in tono sarcastico. ‘E poi mi posso prendere il resto della giornata libero, giusto?’” Ibid., p. 22.

[68]. Ibid., p. 27.

[69]. Ibid., p. 66. Suo malgrado, lo stesso signore dell’Inferno, sperimenterà perdendo il potere, il subdolo effetto del meccanismo dei tre desideri, in realtà indotti in Thursley e governati tramite Scuotivento da astuti demoni aspiranti al trono, cfr., p. 143.

[70]. Ibid., p. 130.

[71]. H. Fortuin, Il seminatore di sogni, Milano, Salani, 2004, p. 57.

[72]. N. Shusterman, Il ragazzo che diventò (quasi) padrone del mondo, Casale Monferrato, Piemme, 2005.

[73]. Ibid., p. 69-70.

[74]. I. Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Milano, Mondadori, 2002, p. 124.

[75]. Loc. cit.

[76]. F. Carmagnola, Il consumo delle immagini: estetica e beni simbolici nella fiction economy, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 126. Nel volume si può leggere anche un interessante stato dell’arte degli studi sull’argomento.

[77]. A. Nanetti, L’uomo che coltivava le comete, cit., p. 96.

[78]. Ibid., p. 98.

[79]. Infatti, il saggio, consultato da un uomo che vuole fuggire da questo mondo, domanda: “’Perché te ne vuoi andare? … Qui hai quello che non esiste da nessuna parte e te ne lamenti. Non è sensato.’ ‘Ma non è questo che io voglio. Qui mi sento infelice’ ‘Anche questo non è sensato, perché non hai ragione d’esserlo.’ ‘Non è la ragione che fa felici’ rispose l’uomo”, Ibid., p. 99.

[80]. Loc. cit.

[81]. G. Rodari, Il Pianeta degli alberi di Natale, Trieste, EL, 1997, p. 43.

[82]. C. Demoulié, Il desiderio: storia e analisi di un concetto, cit., p. 299.

Tratto da: R. Pontegobbi. “C’era una volta l’utopia”, in L’immagine della società nella fiaba, (a cura di F. Cambi, S. Landi, G. Rossi), Roma, Armando, 2008