L’abbandono, il perdersi, il vagabondaggio temi-chiave della letteratura per l’infanzia - di Riccardo Pontegobbi
Le “angosce di separazione” sono drammaticamente al centro del mondo psicologico del bambino, e non solo, presentandosi a tutte le età del subconscio.1
Da sempre queste ancestrali paure alimentano l’immaginario, immettendovi motivi e temi di cui si nutrono folclore e letteratura, dal mito alla fiaba, dalla narrativa popolare a quella colta, fino al romanzo moderno. “Abbandono”, “perdersi”, “vagabondare” sono pulsioni fabulatorie elementari capaci di riproporsi, rinnovate e aggiornate, nelle cronache dell’immaginario non solo letterario.
Inoltrandosi nei boschi narrativi contemporanei, dove questi temi hanno attecchito stabilmente, e andando sulle loro tracce, è possibile leggere nel loro ramificato percorso le mappe di alcuni dei più suggestivi sentieri dell’attuale narrativa infantile. Basta non perdersi per via; come ognuno sa, chi va per boschi, anche se narrativi, rischia di smarrire il percorso. In questa escursione gioca a sfavore dell’orientamento la suggestione di molte storie che incrociando il cammino rischiano di trascinare nel fitto, di invitare a deviazioni. Come evitarlo? Tarando gli strumenti di orientamento e precisando i punti di riferimento.
Il primo di questi punti è dato dalle opere di narrativa contemporanea (i dovuti riferimenti alle fiabe e ai classici saranno il più possibile contenuti) reperibili in buon numero e qualità oggi in Italia.
Il secondo dal loro grado di appetibilità per i bambini e i ragazzi, caratteristica questa che rappresenta lo strumento più idoneo di un efficace lavoro di mediazione della lettura.
Il terzo dall’incontro con alcune opere scritte per adulti, nelle quali la messa in scena dell’infanzia serva a illuminare il sentiero da percorrere.
Il destino dei bimbi abbandonati
La storia dei bimbi abbandonati è ricca di documenti, legata com'è al rilevamento contabile del loro numero e dei loro costi sociali: "la storia dell'abbandono è incontestabilmente la più antica storia sociale, la più ricca dal punto di vista quantitativo, che si possa scrivere. Storia, dunque, che è possibile valutare quantitativamente, ma anche storia sensibile e ambigua”.2
Dall’apertura dell’Ospedale di Santa Maria degli Innocenti di Firenze nel 1445, fino a tutto l’Ottocento e oltre, i pur lodevoli tentativi delle collettività urbane e statali di porre rimedi a questa piaga sociale — operati soprattutto nell’Europa latina e cattolica, dove più forte e istituzionalizzata è stata la pratica dell’abbandono — non sono riusciti a invertire la tendenza che ha visto la maggior parte degli abbandonati morire nei giorni successivi all'esposizione e i rari superstiti essere condannati a una vita miserabile.
I positivi destini di Pollicino o del Remy di Senza famiglia, personaggi che ci affascinano perché “non hanno passato e perché sembrano padroni del loro avvenire”,3 benché svolgano un’irrinunciabile funzione di catarsi letteraria, non risultano più di tanto significativi sullo sfondo di una realtà storica che documenta la catastrofica mortalità dei bambini abbandonati. Al proposito si è potuto parlare di massacro degli innocenti, ma anche di infanticidio legalizzato o di forma perversa di controllo delle nascite.
L’aspetto orrorifico è ancor oggi presente, documentato dalla tv e dai giornali, colto nel gesto della madre o dei parenti che si disfano del neonato scaricando il povero fardello in un cassonetto dell’immondizia o in un fiume. In questi casi l’obiettivo è di liberarsi del peso a tutti i costi, senza nemmeno passare attraverso i servizi sociali di assistenza, che potrebbero garantire al neonato un percorso di adozione.
L’ambiguità del fenomeno sta nella difficoltà, incontrata anche dalla storiografia più attenta e avvertita, di individuarne le cause, non sempre tutte riconducibili allo stato di miseria materiale delle famiglie. Quel coacervo di motivi che ne sta alla base e che vede coinvolti concetti quali responsabilità sociale, illegittimità, controllo delle nascite, smarrimento valoriale, costituisce ancora oggi una pesante eredità, che opportunamente aggiornata alle condizioni materiali e morali della società attuale alimenta, da noi e nei paesi del terzo e del quarto mondo, un’efficiente fabbrica di trovatelli.
Bambini di strada
Il fenomeno dei “bambini di strada” desta oggi il massimo allarme: dal Ruanda al Brasile e, sin nel cuore dell’Europa postindustriale, la crescita dei giovanissimi homeless è ampiamente documentata (sono, secondo l’Unicef, circa 100 milioni in tutto il mondo).
Su questo fronte ci soccorrono due romanzi di forte impatto emotivo, leggibili da ragazzi e adolescenti: Isabel di Mecka Lind, scrittrice svedese che ha raccolto il materiale per il suo lavoro tra i bambini di strada di Rio de Janeiro, e Figli del buio di José Louzeiro e Júlio Emílio Braz.4
Isabel è un’opera dura e scabrosa sulle tribolazioni di una bambina di 8 anni che, nella giungla della grande città, è affiliata a una banda in cui si ruba, ci si prostituisce, si sniffa la colla, si lotta per il pasto quotidiano e ci si deve guardare dalle squadre della morte impegnate nell’implacabile opera di “pulizia” delle strade.
È proprio l’azione di una squadraccia della morte, formata da dieci, forse dodici uomini, tutti poliziotti o personaggi della politica locale, che apre la serie di storie dei Figli del buio, con la strage di bambini di strada che dormono “raggruppati in mandrie” in Piazza dei Dolori. Dormono legati insieme con un filo di spago, “se lo sterminatore l’avesse tirato si sarebbero subito svegliati, avrebbero gridato, avrebbero assalito l’assassino con la furia di cani idrofobi”.5 Ma gli sterminatori colpiscono con armi automatiche, senza nemmeno avvicinarsi e non c’è scampo per i bambini.
Sono, queste, storie che sconfinano nella cronaca e della migliore cronaca giornalistica assumono lo stile asciutto ed essenziale. Questi bambini, che lottano strenuamente ogni giorno per la sopravvivenza, sviluppano tutte le capacità predatorie necessarie: sono “brutti, sporchi e cattivi”, come ci si aspetta che siano, ma sono anche capaci di forti slanci di lealtà, di solidarietà e umanità che trovano nel gruppo il contesto più naturale di applicazione. Solo in gruppo si può sopravvivere, il “gruppo è la legge”.
La legge delle istituzioni ha invece l’aspetto repressivo e violento della polizia, con cui è bene non venire a contatto: i poliziotti sono i custodi inflessibili e ottusi di un ordine sociale che non tollera l’esistenza dei portatori di una miseria oscena e imbarazzante. “Il poliziotto mi ha dato un calcio. Così senza motivo, solo per il piacere di dare un calcio – dice Rolinha – Mi ha dato un calcio e se ne è andato, come se io non fossi proprio niente, o fossi solo qualcosa che si prende a calci. Doca ha detto che ero una stupida a piangere. Non era una novità per nessuna di loro. Tutte avevano addosso segni di calci. Segni che mostravano con un certo orgoglio. Segni di un duro apprendistato. Adesso sono una di loro. La polizia mi tratta come una di loro”.6
Il rappresentante della legge in strada è il nemico principale, quello con cui è più facile che si imbatta il bambino solo, il vagante, il vagabondo, fin dai primi romanzi in cui si muovono bambini abbandonati.
Basti ricordare i pochi ma significativi incontri del Remì di Senza famiglia con i rappresentanti dell’autorità: quello con il “pignolo” agente di Tolosa che porta all’arresto di Vitalis, l’artista girovago che ha comprato Remì da papà Barberin,7 e che segna l’inizio delle disgrazie della compagnia, o quello con la guardia che sequestra la mucca destinata a mamma Barberin e trattiene in prigione Remì e l’amico Mattia.
Cadere nelle mani della legge comporta, per i piccoli vagabondi, la fine del viaggio e della libertà, a cui seguono la coercizione, il brefotrofio o il riformatorio.
Il vagabondo, come sappiamo dalla copiosa produzione storica sull’argomento, è a partire dal Medioevo — da quando cioè si è andato costruendo il volto cittadino dell’Europa — il vero e proprio incubo delle amministrazioni locali e statali, piaga sociale da estirpare con l’uso di decreti di espulsione o con la reclusione. Il povero itinerante non è accettabile, è fuori da un sistema sociale che può permettersi di tollerare e assistere il derelitto, purché stanziale.8
L’orizzonte degli abbandonati è dunque talmente fosco e gravido di conseguenze, che non c’è da stupirsi se ancora oggi troviamo l’abbandono nella hit parade delle paure dei bambini.
Come si sente Hänsel quando, nel cuore della notte, ascolta la conversazione del padre e della matrigna che, spinti da una recrudescenza della loro condizione di miseria, progettano l’abbandono dei due figli nel folto della foresta? Siamo di fronte all’immagine letteraria della paura ancestrale del bambino piccolo, che si sveglia affamato e “si sente minacciato di rifiuto e abbandono che egli percepisce sotto forma di paura della morte per fame”.9
Come ci ha insegnato Bettelheim, che fa della vicenda di cui sono protagonisti Hänsel e Gretel un elemento nodale del suo libro, la fiaba – così come la migliore letteratura – parla al bambino delle sue gravi pressioni interiori, lo aiuta a comprendersi e gli offre soluzioni sia permanenti che temporanee alle sue pressanti difficoltà. In particolare la fiaba assolve a questo compito “non attraverso una comprensione razionale della natura e del contenuto del suo inconscio, ma familiarizzandosi con esso, intessendo sogni ad occhi aperti: meditando, rielaborando e fantasticando intorno ad adeguati elementi narrativi in risposta a pressioni inconsce”.10 La fiaba mette il bambino di fronte all’inevitabilità delle gravi difficoltà della vita, lo spinge a non ritrarsi intimorito e ad affrontare risolutamente le avversità, gli insegna che attraverso questo comportamento, caratteristico degli eroi che la agiscono, è possibile superare gli ostacoli e riuscire infine vittorioso.
La lotta contro l’abbandono raccontata in Hänsel e Gretel è l’impresa del viaggio che ogni bambino deve compiere per trovare se stesso, per diventare una persona indipendente tramite la conoscenza del mondo.
Il corpus sterminato dei racconti di fate offre innumerevoli esempi di questa condizione esistenziale: a partire da Pollicino e Fratellino e sorellina per arrivare, passando attraverso una folta schiera di bambini abbandonati e persi nel bosco, alle riscritture contemporanee di Calvino (Il bambino nel sacco, Sperso per il mondo), a Rodari (Nino e Nina), a Carpi.11
Il duro apprendistato per l’esistenza, che abbiamo visto svolgersi nelle due opere citate sui bambini di strada mostra, in un più vasto e cupo orizzonte di morte, elementi di speranza, che pur non sfociando mai nel lieto fine12 lasciano intravedere senso e forza di una vita che, sebbene contrastata strenuamente, tenta di farsi spazio: Isabel in fondo al tunnel della solitudine, dopo che tutti i suoi labili punti di riferimento sono venuti meno (la sorella è stata uccisa, i membri della banda sterminati, la vecchia chiromante che l’aveva accolta è perita nel crollo della sua baracca) avverte i primi movimenti del bambino che porta in grembo e Rolinha, abbandonata dalla madre a cinque anni, adesso ne ha due di più e va avanti vedendo cosa può fare “per continuare a vivere”.
Dalla “ruota” al supermarket
Un tempo era la “ruota”, curioso marchingegno posto all’ingresso degli Spedali degli Innocenti, a caratterizzare il rituale dell’abbandono e l’ingresso dei trovatelli nell’istituzione di accoglienza. Ora, tra i molti luoghi simbolo del nostro tempo, possono essere il supermercato e il centro commerciale a fare da sfondo, con le loro offerte e i loro lustrini e con le musichette di sottofondo, alla tragedia che si consuma nella generale indifferenza.13 Una rappresentazione che ben si colloca in questi “regni del fantastico” a cui aspirano assurgere i centri commerciali: “scene teatrali su cui si recita ciò che Kowinski definisce ‘tragedie al minuto’”.14
La mamma aveva promesso di fare in fretta nel supermercato, dove avrebbe dovuto prendere solo un po’ di riso per la cena; ma mentiva, non è mai tornata e Rolinha entra ed esce più volte dall’edificio, cerca la madre, la chiama. “La solitudine mi stringeva in una morsa – ricorda — la paura cresceva. Ero stanca. Mi sono seduta in piazza. Il mondo intorno a me diventava sempre più grande, insieme alla mia solitudine. Avevo paura. La gente andava e veniva, tutti avevano fretta. Scappavano. Mi evitavano. Non mi guardavano. Ero sola”.15
Qualcosa di simile accade ai protagonisti del romanzo Voglio tornare a casa di Cinthia Voigt, abbandonati in auto dalla madre — in preda a un irreversibile stato confusionale, dopo aver perso il suo ultimo posto di lavoro — nel parcheggio di un centro commerciale dello stato americano del Connecticut.16
Non è casuale che la bambina più grande, Dicey, che si farà carico della sorte della famiglia Tillerman, ora composta da quattro ragazzi, di età compresa tra i sei e i tredici anni, ancora in attesa del ritorno della madre suggerisca al fratello di raccontare la fiaba di Hänsel e Gretel alla sorellina più piccola che comincia ad agitarsi.
Nell’immaginario letterario attuale il centro commerciale sembra talvolta assumere il ruolo che un tempo era destinato al bosco: in questo “nonluogo” contemporaneo, elemento fondamentale del paesaggio della periferia urbana odierna, dove l’individuo è condannato “alla solitudine e all’anonimato proprio nella misura in cui questo ‘paesaggio’ si squalifica, perduto tra un passato senza traccia e un futuro senza forma”,17 ci si può perdere e non solo metaforicamente.
In Bambini nel tempo,18 uno tra i più significativi romanzi di Ian McEwan, nei pressi della cassa di un supermercato londinese si consuma la tragedia della scomparsa, o meglio, della volatilizzazione di Kate, tre anni. La vicenda che segna l’inizio della disgregazione della famiglia e di un accidentato percorso di crescita e di consapevolezza — infine di ricompattazione – tra i protagonisti, per l’appunto uno scrittore di libri per bambini e la sua compagna, fa di Bambini nel tempo una di quelle opere che, rivolte agli adulti, sono per essi di particolare suggestione — e lo sono soprattutto per gli educatori — per leggere le complesse mappe dell’infanzia contemporanea e per " rimettersi loro stessi in sintonia con le prospettive luminose e i sogni oscuri dell'infanzia", come ha scritto Stephen King a proposito di certi libri.19
Voglio tornare a casa è l’odissea dei giovanissimi Tillerman sulle strade d’America, iniziata con il massimo della rottura dell’ordine familiare, ma con una grande voglia di ricostituirlo su basi finalmente solide. Non sarà indolore per i ragazzi arrivare, dopo un lungo e avventuroso viaggio attraverso due stati, prima presso la tormentata cugina Eunice, poi presso l’ostica nonna materna. Il grande orgoglio (“ho la sensazione che non ci sia quasi niente d’impossibile, al mondo, per noi. Perché siamo i Tillerman”) e la grande forza di volontà di Dicey, la sua capacità di adattamento, di organizzazione e di pianificazione (gli acquisti di cibo lungo la strada e la gestione dei viveri potrebbero essere i pezzi forti di un manuale di sopravvivenza ad uso dei bambini vagabondi!), il suo senso di appartenenza alla famiglia e l’amore per i fratelli condurranno a lieto fine la storia.
Nel vasto campionario di adulti che prendono parte alla vicenda (tra i pochi solidali con i ragazzi si distinguono dei generosi circensi, la cui condizione viaggiante li avvicina alle sorti dei “nomadi” Tillerman20), si staglia per complessità la figura della nonna materna. L’ultima vittoriosa battaglia dei ragazzi per la stanzialità assegnerà proprio alla nonna il ruolo dell’avversario più tenace, pur in preda a laceranti contraddizioni: “il problema era in che modo la nonna non era ciò che sembrava. Voleva veramente che i Tillerman andassero via? Dicey era sicura che lei non voleva che restassero. Ma non era sicura che volesse che andassero via”.21
I nonni sono spesso, nella realtà come nella fiction, l’ultimo spezzone di famiglia a resistere di fronte all’abbandono perpetrato dai genitori, anche per una sorta di “cascata” di responsabilità a cui non è possibile sottrarsi. Nonna naturale e nonno acquisito svolgono, ad esempio, nel romanzo autobiografico Il rogo di Berlino di Helga Schneider, ruoli fondamentali per la sopravvivenza di Helga abbandonata dalla madre, fervente hitleriana postasi al seguito delle truppe tedesche.22
In prestito per un po’
Non tutte le storie di abbandono sono pervase dal pathos che caratterizza quelle fin qui presentate. Vi sono, per i ragazzi – e sono in molti — che amano in letteratura il crescendo del sorridere, ridere, sganasciarsi dalle risate, anche libri in cui il tema si cala in situazioni narrative improntate dall’umorismo.23
È il caso del Bambino gigante di Allan Ahlberg e della Figlia di Dracula di Mary Hoffman, nei quali l’abbandono ha la curiosa, ma non inusuale forma di un affido informale e temporaneo.
Abbandonato sui gradini di casa, come nella migliore tradizione, il bambino gigante porta l'avventura in casa Hicks. Alice, figlia unica desiderosa di un fratellino deve lottare, aiutata dalla banda degli amichetti, contro chi glielo vuol portare via (i goffi circensi, che ci regalano una esilarante performance nel processo per rapimento che li vede imputati, l'assistente sociale, il malefico dottore). E quando tutto sembra risolto, ecco la vera madre, una gigantessa che scoperchia la casa di Alice per riprendersi il bambino. Il vuoto lasciato in casa Hicks è però colmato dall'arrivo di un fratellino, un “gigante” di 3 chili e ottocento.24
Stesse modalità di abbandono per Angela, misteriosa bambina raccolta dai signori Pistrelli sulla porta di casa. Chi saranno i suoi genitori? Un solo biglietto di accompagnamento, da aprire al compimento dei cinque anni; nel biglietto, lapidario (“Vi sarò riconoscente se vi occuperete di mia figlia. Avrete mie notizie”), la firma: Clara du Coten. La bambina cresce normalmente finché al posto dei denti di latte spuntano denti appuntiti e acuminati come quelli di uno squalo e i suoi gusti alimentari cambiano radicalmente. Niente di più facile per i Pistrelli anagrammare il nome sul biglietto e scoprirvi la firma molto inquietante del Conte Dracula. Sarà in occasione della festa del settimo compleanno di Angela, un party in maschera in stile Halloween, quando comparirà il Conte a riprendersi la figlia Canina, che la natura di vampira a metà di Angela giocherà un brutto scherzo a Dracula. Le comodità piccolo borghesi della convivenza con i Pistrelli (“il riscaldamento centrale e un bel gatto da tenere in braccio”) avranno la meglio sulle prospettive avventurose, ma inevitabilmente irte di disagi, della vita da vampiro.25
Tra le aspettative di benessere dei bambini, espresse da Angela con quel guizzo di comicità che risolve la storia, anche un gatto da tenere in braccio ha il suo peso in una vita che si prospetta all’insegna dell’instabilità e dell’insicurezza. La letteratura per l’infanzia contemporanea mette in scena molte di queste voci, alcune sono alte e chiare, altre sono mugugni, altre ancora si esprimono solo come fantasie interiori e sogni; tutte reclamano diritti che potrebbero essere attinti direttamente da quelle raccolte virtuali di principi che sembrano diventate le Carte dei diritti dei bambini.
In questi casi le migliori condizioni di vita si traducono in desideri legittimi e basilari — come quelli espressi, ad esempio, da Bobbel26 o da Dinnie,27 entrambe costrette a un’esperienza di “affido” temporaneo presso gli zii materni — che però inevitabilmente confliggono con lo stile di vita di famiglie erranti e “diverse”, ma anche con una profonda adesione affettiva alle scelte dei genitori.
Bobbel vive in bicicamper, un curioso mezzo di trasporto a pedale con cui la famiglia si muove in cerca di lavori saltuari; ma vorrebbe abitare in una “casa normale” e non indossare i vestiti smessi di sua madre, troppo grandi per lei. E poi non sa ancora leggere e scrivere e questo particolare purtroppo ostacola seriamente il suo progetto di diventare ricca “per i suoi genitori”. L’affido allo zio Folk e alla zia Zoe, ricchi abbastanza da poter rappresentare un’occasione per il suo futuro, non avrà gli esiti sperati: la diversità della bambina non sarà facilmente integrabile nella nuova casa, né tantomeno a scuola, dove il nomadismo delle sue origini si scontra contro un apparato insormontabile di regole e pregiudizi.
L’occasione di Domenica Santolina Doone, alias Dinnie, ha invece il volto elegante di un esclusivo collegio svizzero diretto dallo zio Max. Le condizioni da cui, suo malgrado, “fugge” sono invece quelle tipiche delle famiglie americane on the road, nuclei in perenne movimento dietro a un capofamiglia "tuttofare", che passa da un lavoro all'altro, da una città all'altra, alla ricerca di un posto migliore, “dell'occasione giusta”, mentre in tutti questi spostamenti pezzi di famiglia si perdono per strada.
Essere chiamata straniera in Svizzera da una nuova compagna di scuola farà ricordare a Dinnie "tutte le volte che, in tutte le città e in tutte le scuole, ero entrata in un'aula scolastica e qualcuno aveva detto: 'Chi quella nuova?' e tutti mi avevano guardata come se fossi ... be' ... straniera. Mentre io li guardavo e mi chiedevo chi fossero loro".28
Il desiderio di una “vera” casa e di una “vera” scuola, in cui non sentirsi stranieri” riporta a quel bisogno di “normalità” che affligge bambini costretti alla marginalità e al nomadismo, fenomeni che caratterizzano, oltre che gli eserciti di disperati che ingrossano i flussi delle migrazioni internazionali, le frange di popolazione più deboli e più esposte delle società postindustriali, il cui esempio avanzato sono diventati gli Stati Uniti e i paesi “laboratorio” di politiche economiche di deregulation.
La “normalità”, condizione a cui Dinnie vorrebbe aderire, pur desiderando anche di essere “diversa”, è la chiave di lettura di questa storia, e si trova ben esemplificata nel diario che la sorella aveva tenuto in tutti i posti dove si erano trasferiti, annotando quello che aveva imparato in ogni città. Tra le annotazioni più significative: “Non parlare. Ascolta e basta” (ottimo sistema per evitare che ridano del tuo accento), “Aspettati il peggio”, “Il primo giorno vestiti con semplicità” (“aspetta di vedere come si vestono e poi imitali”).29
Diversi in fuga
La sorte dei bambini bambini diversi è, talvolta, segnata da un’altra terribile forma di abbandono, che nelle cronache giornalistiche di questi anni ha trovato clamorose conferme. Chi non ricorda il caso, scoppiato nell’estate del 1999, del neonato down rifiutato in ospedale dai giovani genitori?
L’arrivo di un diverso in famiglia è purtroppo una vicenda durissima, che mette alla prova tutte le risorse, materiali, intellettuali ed emotive di una famiglia, che avvia un percorso accidentato di “pietà all’inizio, dell’amore, ma anche del conflitto, dello scontro, della tragedia, anche il percorso della morte, la morte delle immagini, la morte delle speranze” e la cui meta non può che essere un processo di “educazione, riabilitazione, integrazione”.30
Grigo, protagonista di Che fine ha fatto Grigo,31 ha 9 anni e ne dimostra 6, a causa dei postumi di una ferita da forpice che ha indotto prima la madre, poi i genitori adottivi a rifiutarlo. L’abbandono ha portato Grigo in istituto, una casa “ai margini del bosco” dove ogni tanto, e solo per pochi minuti spesi in abbracci e pianti, la madre viene a trovarlo carica di caramelle e cioccolatini. Tocca alla giovane e inesperta signorina Bianchi, istitutrice di fresca nomina, occuparsi di Grigo che fa “il matto”, soprattutto quando è oppresso da mal di testa sempre più terribili. Ma, ironia della sorte, la gentilezza della signorina Bianchi può solo distruggere ogni tentativo di avvicinamento, che cozza contro la diffidenza del bambino nei confronti di chi si sforza di essere gentile con lui: purtroppo “l’unica persona a cui volesse bene era sua madre, e lei non si occupava di lui”.32 La fuga dall’orfanotrofio finisce per scandire la vita di Grigo; fino al mesto epilogo assistiamo a tutta una sequela di “uscite” nelle campagne circostanti, alla ricerca di avventure che possano trasformare il piatto orizzonte quotidiano del bambino e tingerlo di esotiche presenze.
Per Lucius detto Lucertola33 queste presenze vestono i panni di due artisti girovaghi, invitati a recitare L’isola del tesoro nell’istituto dov’egli è stato accompagnato dalla madre per non “averlo tra i piedi” in vista di un ennesimo tentativo di matrimonio. È lo sguardo della ragazza che interpreta la parte di Jim Hawkins, uno sguardo che fa trattenere il fiato, a convincere Lucius a fuggire per aggregarsi alla compagnia. Il ragazzo che è sfigurato e claudicante — non si sa se per motivi genetici o per un trauma subito al momento della nascita — nel viaggio che finirà anche per condurlo a ricongiungersi e pacificarsi con la fragile madre-ragazzina, troverà risposte a molti quesiti e rivedrà molte sue convinzioni, non ultima quella che si è fatto della sua diversità.34
La fuga è una di quelle risorse a cui i bambini fanno ricorso per rilanciare l’iniziativa di fronte a situazioni apparentemente prive di vie uscita. Esiste, potremmo dire giocando sul titolo di un bel libro di Peter Hoeg, un vero e proprio “senso dei ragazzi per la fuga”, una prerogativa tutta infantile segnata dal coraggio estremo di mollare e di aprire a prospettive nuove.35
Proprio nel giallo che ha segnato l’inizio della fortuna letteraria di Hoeg, Il senso di Smilla per la neve (un altro di quei libri per adulti dove si entra nel cuore delle pulsioni infantili e i bambini sono elementi motori della storia36) c’è un passo, a questo proposito, da antologia: “Da quando avevo sette anni e venni in Danimarca per la prima volta, fino a quando ne compii tredici e ci rinunciai scappai più volte di quante riesca a ricordare. Arrivai in Groenlandia due volte ... Bisogna attaccarsi a una famiglia e poi far sembrare che la madre è seduta cinque posti più avanti sull'aereo, o in una fila un po’ più indietro. Il mondo è pieno di storie di pappagalli e gatti persiani e bulldog francesi che sono spariti e hanno ritrovato miracolosamente la strada di casa, tornando da mamma e papà in Frydenholms Allé. Non è nulla in confronto ai chilometri percorsi da bambini alla ricerca di una vita decente".37
Soli ma forti
Abbandono e solitudine testimoniano anche di una nuova forma di povertà, che Gustavo Charmet ha definito “povertà educativa”, propria di “molte famiglie che hanno risolto il problema dell’indigenza, sono riuscite ad avere accesso ai beni di consumo ma che, in concomitanza con la legittima rincorsa al benessere, si sono impoverite di capacità di accudimento dei bambini. Molti bambini sono ricchi di oggetti, hanno molto cibo a disposizione ma sono poverissimi di presenze adulte interessate alla loro educazione e alla loro tutela”.38
Nei confronti di Terry Anders — quattordicenne protagonista di un avventuroso viaggio attraverso gli Stati Uniti, dopo essere stato abbandonato, e avvisato per telefono due giorni dopo il fatto, dai genitori ignari di essere entrambi contemporaneamente in fuga — “loro” non erano né cattivi, né buoni, non erano niente. Per loro era come se non esistesse: “si erano limitati a ignorarlo per quattordici anni. Completamente. A loro non importava quello che faceva Terry, come si vestiva, che cosa mangiava, come si sentiva, se a scuola andava bene o se rischiava la bocciatura”.39 Non ci stupisca che, assaporando la nuova forma di solitudine, nelle stanze vuote e nell’insolito silenzio di casa, non più rotto dai continui litigi tra i genitori, Terry provi un’assoluta assenza di dispiacere e un’abbagliante sensazione di libertà, ingredienti perfetti per un progetto di viaggio che lo porterà molto lontano.
E allora un’auto rottamata, modello Blakely Bearcat, ripristinata con cura maniacale seguendo un’innata predisposizione al lavoro sui motori, e un’attenzione verso i libretti tecnici d’istruzione che sembra presa direttamente dallo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, romanzo cult di Robert M. Pirsig, sarà sufficiente per partire lungo i sentieri d’America, in una “ricerca” che a tratti ha il sapore dei vagabondaggi di William Least Heat-Moon in Strade blu.
Terry è figlio di quella “famiglia multiproblematica” che ha pochi figli e sufficiente denaro; “il suo problema non è la fame e neppure la casa. Il problema è la mancanza di competenze educative: i suoi rischi sono divenuti il maltrattamento e l’abuso sessuale. I figli della nuova povertà educativa sono molto soli. Bambini costretti ad assumersi precocemente responsabilità e autonomia a causa del disinteresse degli adulti di riferimento che non hanno sviluppato capacità e competenze genitoriali”.40
Matilde, protagonista dell’omonimo romanzo di Roald Dahl,41 è senz’altro, tra i personaggi-chiave della nuova letteratura per ragazzi, la bambina più nota (grazie anche al divertente film Matilda sei mitica! che dal romanzo ha tratto Danny De Vito), segnata da questa forma di abbandono. I signori Dalverme nutrono infatti per Matilde, straordinariamente dotata per intelligenza e sensibilità, “la stessa considerazione che si ha per una crosta, cioè per qualcosa che si è costretti a sopportare fino al momento in cui la si può grattar via, eliminandola con un colpetto delle dita”.42 Lettrice famelica e onnivora, la piccola, che prima dei cinque anni ha già messo insieme una lista di letture da impressionare anche il bibliotecario più smaliziato, non trova alcuna comprensione in famiglia dove la virtù più apprezzata dal padre venditore disonesto di auto e dalla madre, fanatica giocatrice di bingo, è l’ottusa teledipendenza del fratello. La soccorre, fortunatamente, un’intelligenza che accresce la sua già forte fantasia, e che si esprime in divertenti e micidiali vendette, prima nei confronti dei familiari, poi ai danni di adulti vessatori come la direttrice-dittatrice della scuola elementare “Aiuto”, la signorina Spezzindue. Comprensione, affetto e tenerezza sono merce rara, che però non è bandita nemmeno nel grottesco universo narrativo costruito nel romanzo di Dahl: la maestra Dolcemiele — presso la quale Matilde finirà per accasarsi, perfezionando e ufficializzando l’abbandono da parte dei familiari, che fuggono tallonati dalla polizia inglese — ne è infatti la quintessenza.
La fantasia è risorsa tra le più sfruttate dai bambini abbandonati per difendersi da adulti insensibili o apatici, o semplicemente per sopravvivere in ambienti deprivati materialmente e affettivamente. Quando va bene, da queste situazioni i bambini escono più forti, più autonomi, vittoriosi sugli adulti con cui vengono a contatto, capaci perfino di “assistere” chi non è in grado nemmeno di badare a se stesso. È il caso di Dakota, la punk decenne regalataci dal versatile autore londinese Philip Ridley, che segue a ruota Matilde nella classifica dei personaggi più amati dai bambini.43 Irriverente, sboccata, superattiva, coraggiosa ed estremamente intelligente, Dakota vive tra pesciolini d’argento, carrelli dismessi del supermercato e anguille mutanti in un casermone sporco e crepato, occupandosi, a modo suo, di una madre che non ha più lasciato l’appartamento da anni, da quando il marito l’ha mollata. Da allora essa vive su una Cuccia a Rotelle superaccessoriata e si nutre dei budini che Dakota le prepara tra un’avventura e l’altra nei cortili di cemento delle Bianche Dimore o sul canale che porta all’Isola del Cane Randagio, dove l’attende l’appuntamento col destino del padre scomparso.
A volte però nemmeno una forte carica fantastica e un’ostinata volontà di difesa salvano dalle maglie di istituzioni di assistenza che spezzano invece di ricostruire. È quanto accade alla solitaria Sara-Kate, che condivide per molti aspetti la sorte di Dakota nell’opera di “copertura” di una madre malata e incapace di occuparsi di alcunché. Il padre non vive più con loro (“è in viaggio”, dice sempre Sara-Kate) e la madre non esce mai di casa, un luogo ormai fatiscente e in stridente contrasto con le curate dimore dei vicini. Solo il villaggio degli elfi, in giardino, meticolosamente descritto dalla ragazzina a Hillary, la bambina che abita nella casa confinante, ha il potere speciale della magia di “cambiare impercettibilmente la realtà”,44 di attrarre attenzione e amicizia. Il rapporto che si instaura tra le due bambine è destinato a durare l’arco di pochi mesi, di quella manciata di mesi invernali che bastano a far precipitare l’insostenibile situazione familiare di Sara-Kate e, come lei ha previsto, a disperdere madre e figlia. “Sai cosa succede se telefono a qualcuno per chiedere aiuto? Sai cosa fanno? — dice in uno scatto d’ira all’amica — Porterebbero via la mia mamma … lontano, dove nessuno potrebbe più vederla … perché la gente comune non vuole saperne di noi … non le piace chi vive in modo differente, non le piacciono i malati … non ci vuole fra i piedi”.45 Solo il villaggio degli elfi, miracolosamente scampato allo smantellamento del mobilio e delle suppellettili, al rifacimento della casa di Sara-Kate e al via vai di curiosi e acquirenti che si aggirano per il giardino, rimarrà per Hillary un indelebile tramite con l’amica, l’unico elemento ad avere il potere di “restituirgliela tutta intera”.
Erranti e vagabondi
Nella realtà e nella letteratura la condizione del trovatello, dell’abbandonato, del “solo al mondo”, o di colui che fugge da una famiglia con cui non è più possibile convivere, è sempre l’inizio di una vita errante e vagabonda, di un viaggio che segna tutta un’esistenza. Dal Lazarillo de Tormes in poi sono innumerevoli i personaggi che fanno della mobilità il tratto caratterizzante di una formazione che si realizza sulle strade del mondo.
Il fenomeno, che pare essersi istituzionalizzato nella società contemporanea, le cui condizioni economico-sociali contemplano la compresenza di situazioni di sfacciata opulenza e di estrema povertà, ha le sue radici nella rottura dei legami familiari e sociali che si verifica in situazioni di crisi materiale e morale.
Fin dagli anni ’80 questa condizione sembra riguardare oltre un milione tra ragazzi e giovani caduti in povertà. In un saggio di alcuni anni fa il sociologo Raffaele Rauty metteva in guardia da una lettura del fenomeno che certa pubblicistica recente ha fatto propria, soprattutto negli Stati Uniti. Questa interpretazione ha teso a considerare la “scelta di mobilità” in un’ottica esclusivamente soggettiva: in questa lettura "la strada, come il mare, tende a divenire … il luogo che nega se stesso come definizione di insediamento e come identificazione di vita e che viene valorizzato solo come percorso da attraversare, nel quale dislocare la propria ansia di liberazione da quanto si manifesta come insoddisfazione, disadattamento, difficoltà di relazione”. Il recupero a questo fine — aggiunge Rauty — delle vicende degli anni Sessanta, quali la beat generation, gli hippy, Dylan, Ginzberg, è funzionale al rafforzamento dell'idea “di un soggetto che, del tutto autonomamente, avverte queste sensazioni ed altrettanto autonomamente e individualmente sceglie questo percorso nel quale dissolversi". L'equivoco che tale operazione può determinare è che la mobilità, la perdita e la lacerazione delle radici facciano parte soltanto di un ribellarsi individuale alla società organizzata. Il discorso — conclude il sociologo — è più complesso: "c'è la possibilità che l'idea stessa di dimora non trovi fondamento ... finendo per unificarsi con l'idea di persona, destrutturando l'universo circostante ... l'individualismo non è più processo di liberazione determinato dalla modernità, ma piuttosto di atomizzazione del soggetto e separazione pressoché definitiva dal proprio contesto sociale ... Storicamente la mobilità si pone come elemento che può avere una componente soggettiva, ma nasce anche da una coazione oggettiva. Nella mobilità vi è certo un elemento di non integrazione, di liberazione, ma c'è anche spesso, molto spesso, la necessità di perseguire un obiettivo, un sogno, in cui magari tendenze individuali e necessità sociali si incontrano, rafforzandone complessivamente l'attualità e facendo sembrare quasi naturale quel processo".46
Tra i non pochi romanzi contemporanei, nei quali si dispiega una prospettiva articolata del fenomeno, si fa largo Serial killer di Robert Swindell.47 Il libro presenta, in parallelo, il racconto del sedicenne Link, diventato suo malgrado un barbone, che vaga per Londra chiedendo l'elemosina e cercando di combattere freddo e fame e il diario di Shelter, maniaco omicida di vagabondi, che Link e altri giovani sventurati incontrano sul loro cammino.
In quest’opera, che nel 1994 ha ottenuto la Newbery Medal, uno tra i premi più ambiti dagli scrittori per ragazzi, si descrive impietosamente la caduta in povertà del giovane, arrivato nella capitale inglese in cerca di lavoro e sistemazione dopo l’irreversibile rottura con la famiglia. Nel processo di degrado che si consuma è resa palese la “coazione oggettiva” responsabile di questi processi, un micidiale meccanismo sociale di esclusione che invano Link cerca di contrastare.
Quando l’ospitalità di uno dei familiari mostra evidentemente la corda, per Link è ora di rimettersi in viaggio; l’espressione “ora di mettersi in viaggio” suona bene: “sembra una di quelle vecchie canzoni con il tipo che non riesce a fermarsi in nessun posto … romantico, vero? Balle. Deprimente, ecco che cos’è! Deprimente e pauroso. Lasci un posto noto e t’incammini indifeso verso l’ignoto … Ti ritrovi in mezzo a gente dura, violenta. Squilibrati, anche. La tua vita è in pericolo giorno e notte. Soprattutto la notte. Ci sono individui così disperati o fuori di testa che ti darebbero una coltellata o una botta in testa per rubarti il sacco a pelo e i pochi spiccioli che hai in tasca. E ce ne sono altri che cercano d’infilarsi nel tuo sacco a pelo perché sei così carino e hai una pelle così morbida. E non puoi rifugiarti da nessuna parte, perché la gente se ne sbatte di te. Se ne frega. Sei solo l’ennesimo barbone, e un barbone in più o in meno non fa differenza”.48
La tensione tra desiderio di famiglia, di affetti duraturi, di stanzialità, e gusto incontenibile per la fuga e il vagabondaggio, caratterizza molti dei ragazzi che agiscono in storie di strada.
La vicenda di Rasmus, bambino svedese protagonista di un fortunato romanzo di Astrid Lindgren, è a questo proposito paradigmatica. Ospite dell’orfanotrofio Västerhaga diretto dalla severissima signorina Poiana, Rasmus vive la sua reclusione, al pari dei confratelli, nella speranza che un bel giorno “sarebbe capitato qualcuno che, per una misteriosa ragione, avrebbe scelto proprio lui”.49 Essere scelto avrebbe voluto dire avere, come un vero bambino e non come un piccolo servo, una casa e dei genitori. Purtroppo al Västerhaga, per uno come Rasmus, un ragazzo già grandicello e coi capelli lisci, le speranze di “accasamento” si approssimano allo zero: vengono infatti sempre scelte bambine coi ricci biondi. Sarà così per l’ennesima volta e a Rasmus, terrorizzato anche dall’attesa di una punizione della Poiana, non resta che la fuga.
Oscar, dal volto rotondo e dal largo sorriso, un vagabondo sui generis incontrato in un fienile, sarà mentore per il bambino delle gioie di una vita votata alla libertà, in una campagna che emana un fascino indimenticabile. Oscar sarà anche capace di ricomporre le spinte contrastanti di Rasmus, goloso di affetti stabili ma anche affascinato dalla inquieta e instabile esistenza randagia. Chi, se non un padre-vagabondo, potrebbe far di meglio?
Oscar è l’erede di una tradizione che, nelle letterature nordiche, ha nel romantico Buonannulla di Eichendorff il suo capostipite. È un eroe mite e ridanciano, pronto a barattare una canzone per un piatto di “aringhe arrosto e patate calde”, uno che non intende lavorare come una “macchinetta” ma che, quando vuole, quando gli viene il “tic di lavorare” è capace di sgobbare come un negro. Oscar appartiene di diritto a quella schiera di anarcoidi romantici il cui orizzonte esistenziale si inscrive nel destino di un mondo contadino ormai estinto, un affascinante “mondo perduto” pre-industriale posto sull’altopiano di una società che ha ormai compiuto il suo cammino di massificazione.
Nella realtà odierna personaggi come Oscar appartengono ai sogni e alle consolazioni che la narrativa continua a proporre, a fronte dei Link, dei Bobbel e di tanti altri, se è vero, come acutamente ci mostra Zygmunt Bauman,50 che libertà di movimento e mobilità sono diventate oltre che essenziali categorie di comprensione dei nostri tempi, elementi di stratificazione sociale che hanno sostituito antiche distinzioni, quali quelle tra ricchi e poveri, nomadi e stanziali, normali e anormali. Il nomadismo, come tratto distintivo della condizione umana postmoderna, appartiene di diritto a chi “sta in alto”, alle élite globalizzate libere di muoversi e di collocarsi in un mondo in cui le distanze non hanno più peso e importanza; per gli altri, per quelli che stanno “in basso”, il movimento significa che “spesso vengono buttati fuori da dove vorrebbero stare … E se non si muovono, spesso la terra viene strappata sotto i loro piedi, per cui ci si sente comunque in movimento. Se prendono la strada, nella maggior parte dei casi lo loro destinazione la scelgono altri; di rado è piacevole, e comunque non viene scelta in base alla piacevolezza. Può darsi che occupino un luogo assolutamente modesto, che lascerebbero volentieri, ma non hanno dove altro andare, dato che non sarebbero i benvenuti da nessun’altra parte e difficilmente sarebbero autorizzati a piantarvi le tende”.51
Icona dei nostri tempi pare dunque essere sempre di più Mary Wolf, ragazzina destinata a una tragica odissea insieme alla famiglia, partita in camper in cerca di maggiore fortuna quando il padre perde il lavoro.52
Nello “spazio franco” concesso alla letteratura continuano, comunque, ad aprirsi varchi per storie di vagabondaggio nelle quali gli incontri per via aprono possibilità di forti e intense amicizie, o delineano percorsi di conoscenza di sé e del mondo avviati e alimentati da un’ansia di libertà, di anticonformismo e di anarchismo che l’infanzia porta come sua naturale dote nel rapporto con gli adulti e con la realtà.
Un personaggio che entrerà stabilmente nell’immaginario letterario è sicuramente Sara Allen, protagonista di Cappuccetto Rosso a Manhattan. Non è un caso che i primi tre libri di Sara Allen — Robinson Crusoe, Alice e Cappuccetto Rosso — abbiano per comun denominatore "l'andare in giro per il mondo da soli, senza un padre o una madre che li tenesse per mano, dicendo loro di stare attenti e vietando loro qualunque cosa. Nell'acqua, nell'aria, in un bosco, ma da soli. Liberi. E naturalmente potevano parlare con gli animali, a Sara sembrava più che logico. E anche che Alice cambiasse di statura, perché anche a lei succedeva in sogno. E che il signor Robinson vivesse su di un'isola, come la Statua della Libertà. Tutto aveva a che fare con la libertà".53
Cronaca di una selvaggia libertà, consumata in un ambiente naturale incontaminato, è quella rappresentata nel Bambino smarrito di Hudson, prototipo del vagabondo per vocazione, interpretata come conoscenza ed esperienza piena e intensa del mondo e delle sue multiformi e sotterranee realtà.
Martin diventa vagabondo quando sa appena camminare, quando esce dai confini della fattoria e si inoltra nella pampa inseguendo ostinatamente un miraggio, fenomeno che si muterà nel Popolo del Miraggio, stravagante esercito che consacrerà Martin "vagabondo", perché solo chi ha la forza e la costanza di seguire il miraggio può meritare questo titolo — affinché possa rallegrare il suo cuore "con lo spettacolo di tutte le cose strane e belle che il mondo contiene".54 Martin versa in questa ricerca un’inquietante e superiore ossessione, che sembra trascendere il suo essere minuto e fragile, tanto da consentirgli “imprese” altrimenti soverchianti le sue forze e la sua volontà; per certi aspetti la sua condizione lo accomuna a quella del migratore che, come ci dice Elémire Zolla, scivola tra le strutture dei sedentari e vive nello stato infrastrutturale che introduce alle iniziazioni.55
Il modello hudsoniano ha una qualche rispondenza in molti dei personaggi messi in scena da Pinin Carpi, a partire dal ciclo di Mauro e il leone, perfetto esempio di picarismo contemporaneo. I giovani di Carpi sono in giro per il mondo in cerca di fortuna: chi viaggia in bici, chi in motorino, chi a piedi. Per tutti sono assicurate avventure ed emozioni: amore a prima vista, mangiare e bere ciò che piace, incontri con sbruffoni e briganti, il tutto in storie che amano rivisitare luoghi, situazioni e personaggi delle fiabe.56
Bambini che lasciano il sentiero
Smarrire la “diritta via” e ritrovarsi nella “selva oscura” segna l’inizio di un percorso di formazione, di conoscenza di sé e del mondo dagli esiti incerti e contraddittori. Mai lasciare il sentiero, ammonisce la fiaba; chi lo fa, trasgredendo e disubbidendo ai dettami della morale condivisa, va incontro a esperienze che metteranno a dura prova il suo carattere, la sua forza d’animo e non ultima la sua esistenza.
Conoscenza di sé e conoscenza del mondo, possibili esiti dello smarrirsi, sono i due principali versanti di un’unica ripida china che deve affrontare chi si perde, due esperienze esplorative sottoposte a diverse, seppur correlate, tipologie di geografia.
Sul primo dei due versanti ci si smarrisce perché ci si possa finalmente conoscere e dunque ritrovare e l’accadimento è scomponibile in tappe di un viaggio “formativo” il cui senso sta nella crescita. Non importa, in fondo, perché ci si smarrisca, né dove ciò accada, né quanto a lungo duri questo stato; l’atto è in funzione della conoscenza interiore che l’eroe — sul terreno prevalente della fiaba o della narrativa di impianto fantasy — può raggiungere attraverso imprese atte allo scopo. Le “crisi” adulte o l’urgenza giovanile di evolvere sono i momenti scatenanti dell’evento che ha i suoi archetipi negli antichi rituali della formazione. La letteratura per l’infanzia ci mostra, fin dai suoi migliori esempi, fin da Peter Pan o dal Piccolo Principe, quanto sia difficile tagliare il traguardo: tra gli esiti del perdersi è contemplata la crescita tanto quanto il suo opposto.
Il bambino abbandonato è per molti aspetti la vittima prescelta di quest’esperienza di smarrimento: lo diventa non solo nel momento in cui lascia il sentiero, ma fin dall'inizio della sua vicenda, cioè fin da quando viene abbandonato, magari avvolto in uno scialle, davanti a una capanna (come è successo a Fruscello, protagonista di una recente saga fantasy), e il ritrovarsi dopo un periglioso viaggio ha — come riflette lo stesso ragazzo — il senso composito e profondo del trovare il proprio sentiero, il proprio destino e l’agognato genitore.
Uno di quei momenti critici, in cui la vita fa lo sgambetto e produce un’accelerazione di crescita, coglie Trisha, protagonista di La bambina che amava Tom Gordon, romanzo di Stephen King, il “nuovo, autentico e inimitabile Raccontafiabe dell’Occidente”.57
L’autore affida a un fulminante e perfetto incipit la sintesi della sua poetica: "Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare. Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni. Alle dieci di una mattina dei primi di giugno era sul sedile posteriore della Dodge Caravan di sua madre con addosso la sua maglietta blu dei Red Sox (quella che ha 36 Gordon sulla schiena) a giocare con Mona, la sua bambola. Alle undici cercava di non essere terrorizzata, cercava di non pensare: Questa è una cosa seria, questa è una cosa molto seria. Cercava di non pensare che certe volte a perdersi nel bosco ci si poteva fare anche molto male. Certe volte si moriva".58
Trisha si perde mentre la madre, divorziata, e Pete, il fratello adolescente, sono alle prese con l'ennesimo litigio, durante una gita del sabato nei boschi lungo l'Appalachian Trail. Si allontana dal sentiero per fare pipì, cosa di cui non ha in fondo impellente bisogno, e lo perde. La sua sopravvivenza è legata allo scoprirsi dotata di grande forza di volontà e d'immaginazione, che trova dentro di sé come riserve di energia del tutto inaspettate. Uno walkman, attraverso cui ascoltare la cronaca delle partite di baseball dei Red Sox, e il mitico Tom — miglior lanciatore di chiusura di tutti i campionati — sono alcuni, importanti sostegni che l'aiutano a stare a galla. Contro la fame — si aiuta come può una ragazzina di città — contro la bestia, "una cosa speciale Trisha — le suggerisce la sua cattiva voce interna — la cosa che aspetta quelli che si perdono. Li lascia girare a vuoto finché sono spaventati a dovere, perché la paura dà loro un saporino più gustoso, addolcisce la carne, poi viene a prenderli. La vedrai. Da un momento all'altro sbucherà da quegli alberi. Questione di secondi ormai. E quando vedrai la sua faccia impazzirai".59
La storia ha i ritmi e le scansioni di una partita di baseball, con il "prepartita" e i vari “inning”, che Trisha gioca per la sopravvivenza; alla fine la bambina impara che la vita poteva essere triste, impara ad accettare questa verità e per questo ora riteneva di essere "per certi aspetti più grande di Pete".60
Sull’altro versante dello smarrirsi, necessario complemento di un percorso comunque interiore, il perdersi ha valenza conoscitiva del mondo: si va verso l’ignoto per renderlo noto e l’abbandono del sicuro focolare domestico, evento seppur accidentale, immette nell’esperienza del soggetto un arricchimento essenziale di conoscenza. Motore di questa tipologia del perdersi è un’inquieta ricerca e una mai sazia curiosità per le cose, caratteristiche che Martin, protagonista del già citato romanzo di Hudson,61 possiede in sommo grado. Prototipo di un appetito conoscitivo che non conosce freni (Martin è un selvaggio nell’aspetto e nello stile di vita, è libero come un uccello, come quegli uccelli che l'ornitologo Hudson dissemina lungo tutto il romanzo), né vincoli affettivi (egli lascia prima la famiglia, l’amata madre a cui finirà per dedicare solo pochi pensieri, sempre e solo in relazione alle comodità che presso di lei poteva godere, poi fa lo stesso con la possessiva Signora della Montagna, per andare fino in fondo alla sua avventura), l’eroe di Hudson partecipa di un atteggiamento conoscitivo che richiama quello statutario della scienza moderna (e qui non possiamo dimenticare lo scienziato Hudson, naturalista prima che narratore).
Per Martin il miraggio nel deserto, la Falsa Acqua, che egli non riesce mai a raggiungere, è causa dello smarrimento; un’illusione come quella che agisce nel bosco silenzioso creato da Mainolfi e Quarzo nel racconto Luì e l'arte di andare nel bosco, illusione che qui è possibile combattere con un’arma — il rumore — forgiata nella addomesticata città, nell’ambiente antropizzato che non spaventa (mentre il silenzio fa paura, crea falsi riflessi, ombre).62
Esiste dunque l'arte di non perdersi nel bosco?
Come ci ricorda Franco La Cecla, in un saggio nel quale si operano distinzioni fondamentali sul concetto di perdersi, questa condizione di “spaesamento” e di “fuor di luogo” si carica di profondi significati simbolici nell’ambito di quelle culture dell’abitare e dello spazio che attribuiscano profondo valore al rapporto tra l’uomo e il proprio ambiente di vita.63 Abitare, perdersi e dunque ritrovarsi sono esperienze di vita autentiche, accessibili alla “mente locale” (sintesi di percezione, definizione e uso dello spazio intorno) solo laddove vi sia autentico “ambientamento”.64 Il passaggio dall’insediamento abitativo, dal “villaggio” (ambito dell’ordine e dell’orientamento) al “bosco”, all’altrove (ambito del caos e delle potenze oscure) e il conseguente perdersi possono funzionare come rinforzo dei processi di ambientamento per cui siamo “costretti a ricostruire i nostri punti di riferimento, a misurarci e a ridefinirci rispetto a un altro contesto. In questi casi il nostro riambientamento ci consente di ‘apprendere ad apprendere’ … riattiva cioè una interazione tra noi e l’ambiente che avevamo data per ovvia e che invece nel rischio di azzeramento dell’identità che ogni perdersi comporta riemerge, con le sue ‘ragioni’, le sue logiche, il suo ‘sentire’”.65
Il circolo virtuoso dell’apprendimento, che porta anche alla costruzione di una nuova coscienza civile, è operante nella vicenda di Giulia e Arianna, smarrite durante la visita a una miniera abbandonata, nel romanzo di Silvana Gandolfi L’isola del tempo perso. Si risveglieranno sull'isola, rigettate su una spiaggia, un luogo che è la deriva delle persone e degli oggetti smarriti. L’opera, i cui i riferimenti all'immaginario letterario e filmico sono tanti, dal Peter Pan all'Hook di Spielberg, dal Piccolo Principe al Signore delle mosche, trasuda una forte passione politica e sostituisce al tradizionale teatro del perdersi, costituito dallo spazio, la dimensione temporale, una dimensione anch’essa da recuperare a un’autentica esperienza di vita.
Il tempo dell'isola è dilatato, lentissimo, perché: "è il tempo che viene perso sulla Terra ... il tempo perso dai pigri e dagli oziosi, dai poeti, dai bambini e da chi sogna a occhi aperti".66 Il suo nemico è il tempo “nero” eruttato dal vulcano, le cui fumarole rendono gli esseri viventi simili a zombie antropofagi; anch'esso un tempo perso sulla Terra, "per stupidità, per mancanza di iniziativa. Il tempo che perdi per colpa della burocrazia, del traffico .... il tempo distruttivo, nero, che divora chi lo subisce".67 La battaglia per la riappropriazione di una dimensione temporale non alienante dovrà essere combattuta sulla Terra, dove il tempo “nero” sta prendendo il sopravvento, e impegnerà i naufraghi dell'isola in una missione il cui scopo sarà aiutare gli uomini a “reimparare che il tempo perso non è un lusso ma un bisogno profondo, vitale, irrinunciabile. Solo se saprà riconquistare la capacità di oziare, di osservare se stessi e la natura, la gente potrà vincere il tempo nero!"68
Un autore che ha fatto del perdersi una costante della sua produzione è Pinin Carpi. Giocoso e dirompente è questo evento nelle opere carpiane, una autentica opportunità di conoscenza, che assume a tratti i caratteri di vera e propria provocazione.
Nel Mago dei labirinti, ultima puntata della saga di Mauro e il leone è messa in scena l'isola dei Giardini Lucenti, un luogo incantevole dove si scoprono sempre nuovi sentieri con nuovi colori, musiche, odori, luci; un luogo labirintico, approdo e vera patria dei vagabondi, il premio per chi deve perdersi moltissimo nella vita, per ritrovarsi. In questo labirinto, come ci dice l’autore con il tipico linguaggio parlato che contraddistingue il suo periodare, e procedendo per accostamenti che hanno la capacità di stupire e disorientare il lettore: "se si ha voglia ci si perde, però non ci si perde mai... perché appena si esce di casa tutto sembra diverso, e ci si perde subito, ma senza perdersi. Sai bene che se si vuole tornare a casa basta voltarsi indietro e rientrare dalla porta... e quando la porta non si vede più?... basta tornare indietro... oppure si va avanti finché, gira e gira, si arriva a casa di nuovo". E poi non ci si perde "perché tutti i momenti si trovano delle cose che si aveva voglia di trovare... persino delle cose che non si sa che esistono, persino delle sorprese. È proprio vero che tutto cambia sempre".69
La proposta conoscitiva insita nel gioco del “perdere l’orientamento” e del lasciarsi guidare dalla propria voglia di provare lo stupore che introduce all’apprendimento, culmina in una delle più divertenti storie di Papà Mangione, quella della Nemorina. Qui Carpi scopre il gioco, mostra, come si suol dire, tutte le carte in un provocatorio invito rivolto ai bambini a perdersi, che si traduce in una rivisitazione a rovescio della tradizione fiabesca.
La Nemorina tutte le volte che andava nel bosco si perdeva, perché come diceva lei: "perdersi nel bosco è molto bello! Quando mi perdo mi diverto moltissimo". Tutta questa contentezza, dovuta alla scoperta di cose che non ha mai visto, a nuovi incontri ed esperienze che la affascinano, in un confronto quanto mai ironico con l’ingombrante archetipo di Cappuccetto Rosso, di cui la bambina ripercorre le tappe, può finire con l’arrivo, sana e salva, a casa della nonna?
No, Pinin Carpi non lo permetterebbe. Sono possibili, nelle storie a rovescio, anche i viaggi di ritorno che tendono a non finire mai, e questi viaggi regaleranno a Nemorina tante altre belle perdite nel bosco.70
1. La separazione e la perdita dei genitori è la prima paura che i bambini sperimentano tra il primo e il terzo anno di vita. Cfr. M. Bernardi. “I bambini e la paura. Le radici psicologiche delle paure infantili”, in Bambini e paure dalla fiaba alla tv, Campi Bisenzio, Comune di Campi Bisenzio, 1992 (Quaderni di LiBeR), p. 4-8.
2. J. Bardet; O. Faron. “Bambini senza infanzia. Sull'infanzia abbandonata in età moderna”, in Storia dell'infanzia (curatori E. Becchi; D. Julia), Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 100-131.
3. Ivi, p. 101.
4. Cfr. M. Lind. Isabel. Romanzo sui bambini di strada di Rio de Janeiro, Bolzano, AER, 1997 (Ci siamo anche noi). J. Louzeiro; J. Emílio Braz. Figli del buio, Milano, Mondadori, 1996 (Junior +10).
5. J. Louzeiro; J. Emílio Braz. Figli del buio, p. 9.
6. Ivi, p. 52.
7. Anche i bambini protagonisti del romanzo Piccoli vagabondi di Gianni Rodari vengono venduti, dalla povera madre vedova, a una compagnia di girovaghi che si muove nel secondo dopoguerra in Italia, alla vigilia della grande alluvione del Polesine. Cfr. G. Rodari. Piccoli vagabondi, Roma, Editori Riuniti, 1981 (Biblioteca giovani).
8. Infatti “il mendicante che errava da un luogo all’altro era un potenziale veicolo di epidemie; poteva essere un emissario papista o la spia di una potenza nemica; era comunque un elemento di instabilità, sempre disposto a provocare sommosse o a parteciparvi”. Cfr. M. Berengo. L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, p. 602. Sul vagabondaggio, anche infantile, nelle società dell'Ancient Régime, fatto oggetto di una vera e propria distinzione (tra “'veri poveri', quelli cosidetti 'vergognosi di sé', e gli altri, assimilati agli oziosi o ai criminali.") e sulla sua repressione ad opera delle autorità politiche, amministrative e religiose si veda anche D. Julia. “1650-1800. L'infanzia tra assolutismo ed epoca dei lumi”, in Storia dell'infanzia, cit., p. 3-99. Vagabondi e nuovi devianti (traveller, squatter, raver) sono visti a tutt’oggi come elementi di forte turbativa dell’ordine pubblico; il Criminal justice act, pacchetto di leggi emanato in Inghilterra nel 1994 ha addirittura modificato il concetto di “violazione di proprietà privata” (trepassing) trasformandolo da reato civile a penale per potenziare gli strumenti repressivi a disposizione del legislatore contro queste frange del movimento giovanile. Cfr. Traveller e raver. Racconti orali dei nomadi della nuova era, Milano, Shake, 1996.
9. B. Bettelheim. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1995 (Saggi/Feltrinelli), 15. ed., p. 155.
10. Ivi, p. 11.
11. Per una dettagliata elencazione delle fiabe italiane che affrontano questo tema si veda G.P. Caprettini et al. “Bosco”, in Dizionario della fiaba. Simboli, personaggi, storie delle fiabe regionali italiane, Roma, Meltemi, 1998 (Gli argonauti).
12. Nel quadro di un’ampia trattazione delle molte infanzie letterarie ottocentesche, tra feulleiton, tradizioni di letteratura picaresca e nascita della moderna letteratura per l’infanzia si vedano le interessanti pagine dedicate all’uso del lieto fine nell’esemplare Senza famiglia da F. Bacchetti. I bambini e la famiglia nell'Ottocento. Realtà e mito attraverso la letteratura per l'infanzia, Firenze, Le Lettere, 1997.
13. Il supermercato, come luogo deputato al rapimento e alla scomparsa dei bambini, è fonte di un ricco e “gustoso” repertorio nelle raccolte di leggende metropolitane. Si veda, ad esempio, la parte dedicata a questo argomento in L. Bonato. Trapianti sesso angosce. Leggende metropolitane in Italia, Roma, Meltemi, 1998 (Gli argonauti).
14. Il riferimento agli studi degli anni Ottanta, dedicati da W. Severini Kowinski ai centri commerciali statunitensi,sta in G. Ritzer. Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino, 1997 (Incontri), p. 212.
15. J. Louzeiro; J. Emílio Braz. Figli del buio, p. 45.
16. Cfr. C. Voigt. Voglio tornare a casa, Milano, Bompiani, 1994 (I Delfini Bompiani. Avventura).
17. M. Augé. Disneyland e altri nonluoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 (Variantine), p. 75.
18. Cfr. I. McEwan. Bambini nel tempo, Torino, Einaudi, 1992 (Einaudi tascabili. Letteratura).
19. S. King. Danse macabre, Roma, Theoria, 1992 (Biblioteca di letteratura fantastica), p. 328.
20. Una storia illustrata da Lorenzo Mattotti è ambientata nel circo Zanzibar dove Eugenio, anziano clown lavora. Eugenio è stato abbandonato neonato presso il tendone del circo, dove ha trovato una famiglia e una vita felice fino al momento in cui perde la sua irresistibile risata e il suo cuore di bambino. Ma nella magica notte della vigilia di Natale tutto può accadere… Cfr. M. Cockenpot; E. Mattotti. Eugenio, Milano, Milano Libri, 1994.
21. C. Voigt. Voglio tornare a casa, p. 251.
22. H. Schneider. Il rogo di Berlino, Milano, Adelphi; Scandicci, La Nuova Italia, 1998 (Eolo).
23. L’indagine Doxa del giugno 1999¸ promossa da Comune di Verbania e da Il Battello a vapore Piemme, per la sesta edizione del Rapporto annuale dedicato alla letteratura per ragazzi in Italia, volta a conoscere le aspettative di bambini e ragazzi rispetto ai contenuti di un “libro ideale” di narrativa, ha confermato che “convivono nelle aspettative dei giovani lettori … aree di interesse e contenuti molto diversi: l’area dell’avventura e della fantasia (i pirati, il West, ecc.), l’area dell’umorismo (un libro in cui si ride molto, con un personaggio pasticcione, che combina molti guai, ecc.), l’area del brivido (un libro in cui ‘si ha un po’ di paura’, i fantasmi, i morti viventi, i mostri) e l’area dell’attualità e delle esperienze personali che i ragazzi pensano di poter vivere nei rapporti con gli adulti e, soprattutto, con i coetanei”. Cfr. Letteratura per ragazzi in Italia. Rapporto annuale 1999, Piemme, 1999, p. 206-207.
24. Cfr. A. Ahlberg. Il bambino gigante, Firenze, Salani, 1996 (Gl'istrici).
25. Cfr. M. Hoffman. La figlia di Dracula, Milano, Mondadori, 1992 (Junior -8).
26. Cfr. J. van Leeuwen. Bobbel e il bicicamper, Trieste, Emme, 1993 (Voltapagina).
27. Cfr. Sharon Creech. Un anno in collegio, Milano, Mondadori, 2000 (Junior Mondadori. Gaia).
28. Ivi, p. 31.
29. Ivi, p. 47.
30. A. Canevaro. “La metamorfosi e l’integrazione” in LiBeR, n. 44 (ott. 1999), p. 48.
31. Cfr. P. Hartling. Che fine ha fatto Grigo, Casale Monferrato, Piemme, 1995 (Il battello a vapore. Serie arancio).
32. Ivi, p. 30.
33. Cfr. D. Covington. Lucius Lucertola, Casale Monferrato, Piemme, 1997 (Il battello a vapore. Serie rossa).
34. “Il mio aspetto non è la ragione per cui sono diverso, ma semplicemente la sua manifestazione esteriore”. Ivi, p. 12.
35. Il tema si presta a trascinare in una di quelle allettanti deviazioni capaci di sovvertire l’economia di un lavoro, tante sono nella letteratura per l’infanzia contemporanea le storie di bambini in fuga. Non seguiamo questo impulso e ci limitiamo a rimandare, per un approfondimento critico e bibliografico, all’ampia parte dedicata al tema in LiBeR, n. 38 (giu. 1998).
36 P. Hoeg. Il senso di Smilla per la neve, Milano, Mondadori, 1994 (Omnibus). “Scoprire il proprio compito. Forse è questo ciò che Esaja mi ha dato. Che ogni bambino può dare. La sensazione che ci sia uno scopo". Ivi, p. 325. Di Hoeg si veda anche I quasi adatti, Milano, Mondadori, 1996 (Omnibus).
37. Ivi, p. 64-65.
38. G. Pietropolli Charmet. “Così piccoli ma così già soli”, in Il sole-24 ore, 17 gen. 1999, p. 38.
39. G. Paulsen. Lungo la strada, Milano, Mondadori, 1995 (Superjunior), p. 7.
40. G. Pietropolli Charmet. “Così piccoli ma così già soli”.
41. Cfr. R. Dahl. Matilde, Firenze, Salani, 1989 (Gl'istrici. I Superistrici).
42. Ivi, p. 9.
43. Cfr. P. Ridley. Dakota delle Bianche Dimore, Firenze, Salani, 1991 (Gl'istrici).
44. J. Taylor Lisle. La ruota degli elfi, Firenze, Salani, 1992 (Gl'istrici), p. 12.
45. Ivi, p. 114-115.
. R. Rauty. Homeless. Povertà e solitudini contemporanee, Genova, Costa & Nolan, 1995 (Riscontri saggistica), p. 11-12.
46. “Fu così per il lavoro negli Stati Uniti tra il XIX ed il XX secolo: gli hobos ed i tramps furono il cuore di un proletariato vagante alla ricerca del lavoro, che contribuì in modo determinante alla costruzione della ferrovia ed all'espansione della frontiera statunitense, e che contemporaneamente manifestò i caratteri di un forte processo di non integrazione sociale e culturale”, Ivi, p. 13.
47. Cfr. R. Swindells. Serial killer, Milano, Mondadori, 1995 (Superjunior).
48. Ivi, p. 10.
49. A. Lindgren. Rasmus e il vagabondo, Firenze, Salani, 1988 (Gl'istrici), p. 15.
50. Cfr. Z. Bauman. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 1999 (Sagittari).
51. Ivi, p. 97.
52. C.D. Grant. Mary Wolf, Milano, Mondadori, 1997 (Gaia Junior). La dice lunga sulla “scelta” di mobilità della famiglia l'avvio del tema che la piccola Danielle scarabocchia, quando Mary la incita a scrivere sulla propria situazione: "'Quand'ero piccola, sono partita per un lungo viaggio. All'inizio era divertente vedere tanti posti diversi. Ora, dovunque andiamo sembra uguale a questo schifoso campeggio'” E come aggiunge Mary: “Danielle sa che non andiamo da nessuna parte, che giriamo in tondo. Lei si ricorda la nostra vita di un tempo: una casa senza ruote, un cortile tutto nostro", Ivi, p. 25.
53. C.M. Gaite. Cappuccetto rosso a Manhattan, Milano, Mondadori, 1998 (Contemporanea), p. 23.
54. W.H. Hudson. Il ragazzo smarrito, Milano, Mondadori,1988 (I libri da leggere), p. 48.
55. “Privazioni e dolori, fame, fatica, sottrazione di sonno angustiano, finché si accede … alla
condizione iniziatica e s'imparano cose ignote a chi non abbia subito le prove. Il migrante vive sempre e costantemente nella vita infrastrutturale. Non necessariamente è tormentato, ma senza tregua sta prossimo alla disperazione ed è troppo leggero e svelto per caderci. Sempre gli è prossimo il rischio, non lo turba. Se ne sta tranquillo su quest'orlo. In un certo senso il migratore in genere si trova virtualmente nella condizione dello yogin". Cfr. E. Zolla. Lo stupore infantile, Milano, Adelphi, 1994, p. 97-98.
56. Cfr. P. Carpi. Il vagabondo del mondo e altre storie in cerca di fortuna, Firenze, Giunti-Marzocco, 1992 (Le fiabe fantastiche di Pinin Carpi); Il sentiero segreto, Firenze, Giunti-Marzocco, 1991. Sul piano dell’esplorazione libera e libertaria di territori fantastici e domestici si vedano anche altre opere di Carpi, da Le lanterne degli gnomi a Dietro la porta d’oro alle Avventure di Lupo Uragano e alla Zia Corsara.
57. Cfr. A. Faeti. La casa sull’albero. Orrore, mistero, paura, infanzie in Stephen King, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1998 (Memorandum).
58. S. King. La bambina che amava Tom Gordon, Milano, Sperling & Kupfer, 1999 (Narrativa), p. 3.
59. Ivi, p. 112.
60. Ivi, p. 188.
61. W.H. Hudson. Il bambino smarrito.
62. L. Mainolfi; G. Quarzo. Luì e l'arte di andare nel bosco, Torino, Hopefulmonster, 1996 (La favola dell'arte). I sonagli saranno i "bastoni dell'arte di Andare nel Bosco e non Perdersi nel Silenzio". Ivi, p. 45. Sul bosco come teatro dello smarrimento si veda anche l’interessante saggio di V. Ongini. “L’importanza di perdersi nei boschi” in La biblioteca del bosco, Milano, Editrice Bibliografica, 1998.
63. Cfr. F. La Cecla. Perdersi. L’uomo senza ambiente, Roma-Bari, Laterza, 1996. In questa prospettiva il medesimo atto perde di valore simbolico e assume i caratteri di un semplice disorientamento, di un mero comportamento maldestro, in culture che attribuiscano sempre minore importanza alla specificità dell’essere in un luogo. Di grande interesse sono le pagine dedicate, nel saggio, all’analisi storico-critica dei mutamenti intervenuti con l’avvento della società industriale, con l’estinzione dello spazio elastico a favore delle coordinate spaziali assolute, delle griglie e delle razionalizzazioni, con la mobilità e la rilocazione delle forze lavoro, funzionali agli attuali rapporti di produzione e forieri di insensibilità e distacco dall’ambiente.
64. Come nota acutamente Gianni Vattimo nella Prefazione al libro: “La mente locale oggi ha qualche chance di ritrovare se stessa, e la sua capacità di perdersi, solo ai margini dell’esistenza metropolitana. Sono le zone di indisciplina della metropoli quelle in cui ancora si delinea una possibilità di abitare autenticamente, costruendo gli spazi in base a una conoscenza ‘locale’ che è inseparabile sia da una esperienza di vita comune partecipata … sia dall’articolazione sempre rinnovata di un rapporto tra centri e periferie, tra interno ed esterno, tra noto e (relativamente) ignoto”, Ivi, p. xi.
65. Ivi, p. 92.
66. S. Gandolfi. L'isola del tempo perso, Firenze, Salani, 1997 (Gl'istrici), p. 91.
67. Ivi, p. 105.
68. Ivi, p. 181. A questo scopo, nella selezione dei guerrieri del tempo perso, si dovranno osservare i seguenti criteri: “capacità di restare ore a fissare una nuvola inseguendo l'ispirazione, amore per i vagabondaggi in territori sconosciuti, talento per inventare poesie sfogliando una margherita o per recitare formule magiche disegnando sui vetri appannati, ignoranza assoluta di che cos'è la fretta mentre si accarezza un gatto dietro le orecchie e si ascoltano le sue storie, e — naturalmente — una buona dose di amore per la vita. Sulla Terra queste doti dovevano risultare contagiose come la scarlattina". Ivi, p. 184.
69. P. Carpi. Il mago dei labirinti. Mauro e il leone nei labirinti dove non ci si perde mai, Firenze, Giunti-Marzocco, 1990, p. 38-39. Il perdersi come opportunità anima anche la storia dell’Orsacchiotto Larsen proposta dall’autore-illustratore Hans de Beer. Un blocco di ghiaccio che si stacca dalla banchisa porterà Larsen lontano nel mare, fino a farlo approdare a una lussureggiante isola africana dove l’orso potrà ammirare molte cose incantevoli: alberi, cespugli, erbe e fiori, camaleonti e altri animali. Sarà il piccolo, una volta ritornato a casa con un ricco bagaglio di conoscenze, ad istruire il babbo sulle cose che quest’ultimo non ha mai visto e soprattutto sui colori diversi dal bianco polare dominante nel loro ambiente. Come si sa, la conoscenza rende smaliziati e di fronte all’insistenza del genitore, che chiede se di bianco non c'è nessuno, proprio nessuno sull’isola lontana, Larsen risponderà, con un tocco stilistico da vero “grande”, che sì, qualcuno c’è, il camaleonte... “ma quello non conta”. Cfr. H. de Beer. Orsacchiotto dove vai?, Trieste, E. Elle, 1987.
70. P. Carpi. “La bambina che si perdeva nel bosco, ossia, La vera storia della Nemorina”, in Il papà mangione : e altre storie dei miei bambini, Milano, Vallardi, 1993, p. 41-57.