Fantasia e immaginazione tra reale e irreale - di Riccardo Pontegobbi
La gente crede che farsi pubblicare sia il massimo per uno scrittore. Si sbagliano. Entrano in gioco un sacco di altre cose, come per esempio il fatto che è grandioso sedersi e scrivere una storia pensata proprio dalla tua testa. Poi, magari, ti senti uno straccio se nessuno se la legge, ma un vero scrittore dopo un po’ se ne dimentica. E si ricorda solo di come si è seduto e si è messo a scrivere qualcosa di straordinario, qualcosa che andava ben oltre le sue possibilità, e si ritrova a sperare che possa succedere di nuovo (Janet Taylor Lisle. Come sono diventato scrittore e mio fratello ha imparato a guidare)
La magia è dentro di me!
Fantasia e immaginazione[1] condividono ai nostri tempi un contrastato destino. Ostentatamente relegate nella stanza dei bambini dagli agenti di un ipertecnologico presente, vivono di fatto un’importante stagione, fonti, quali effettivamente esse sono, di quel “mare di storie”, di quel melting-pot di fiction, letteraria, massmediatica, virtuale in cui ci troviamo profondamente immersi. Chi, analizzando le evoluzioni del romanzo contemporaneo dal postmodernismo al global novel, vi ha letto i gloriosi destini del realismo magico e tracciato l’espansione del narrare fin nei più reconditi canali del sistema di comunicazione, non ha potuto non soffermarsi sullo stato di buona salute di cui gode oggi il concetto stesso di narratività.[2]
In questa situazione stabilire la primogenitura tra fantasia e realtà pare essere divenuto meno facile di un tempo, tanto che il tutt’altro che scontato superamento dell’una da parte dell’altra è sempre più spesso sotto i nostri occhi, secondo un copione che sembra scritto dall’ineffabile Oscar Wilde il quale, agli inizi del Novecento, stupiva asserendo quanto la vita imitasse l’arte, come la realtà inseguisse sogni e fantasie degli artisti, dei poeti, dei narratori. Tutto questo si ripete, adesso, in una dimensione sociale e culturale figlia del postmoderno, nella quale è norma l’ibridazione fra i generi e l’interconnessione tra ambiti diversi, tra il documentario e il finzionale, in un contesto di mescidazione accentuata nella quale vengono meno i confini, le separazioni, le certezze. Il sociologo Marc Augè ha detto a questo proposito:
Ci fu un tempo in cui il reale si distingueva chiaramente dalla finzione, in cui ci si poteva fare paura raccontandosi storie ma sapendo che erano inventate, in cui si andava in luoghi specializzati e ben delimitati (parchi di divertimenti, fiere, teatri, cinema) in cui la finzione copiava il reale. Ai nostri giorni, insensibilmente, si sta producendo l'inverso: il reale copia la finzione.[3]
Oggi, il fatto che si operi una continua “derealizzazione della realtà”[4], utilizzando come grimaldello una spudorata delocalizzazione della fiction, non può tranquillizzare chi ha a cuore le condizioni di salute dell’immaginazione e della fantasia, tanto è vero che molti autori contemporanei non cessano di interrogarsi, addirittura sulla possibilità dell’immaginare, oltre che sulla sua qualità, e di dare risposte preoccupate. Fantàsia, mitica terra dell'Immaginario, non è mai al sicuro, come ci ha raccontato Michael Ende, anzi, il fatto di poter essere attaccata e disgregata da potenti nemici è addirittura coazione a ripetere, fonte inesauribile di storie (infinite). [5] Da par suo, Salman Rushdie ci ha avvertiti che il “mare delle storie” ha un’insopprimibile tendenza a corrompersi se non è continuamente rinnovato, e c’è sempre un Principe del Silenzio pronto a contaminarlo.[6] Insomma, la ricerca di un’”ecologia dell’immaginazione”[7] volta a restituirne le corrette funzioni di relazione e di adattamento al sistema dell’industria culturale e a combatterne le tendenze all’inquinamento, appare sempre più necessaria, in considerazione anche della dirompenza della fortuna del filone narrativo fantastico, sulla carta e nell’etere, nell’epoca di Harry Potter e dei suoi epigoni, dopo l’avvento delle stuccchevoli Fairy Oak e la deriva tutta commerciale, prima delle Witch, poi delle Winx. Maghetti, teenager dotate di poteri magici e fatine impegnati nella lotta contro il Male, ma soprattutto proiettati nella saturazione di tutti i possibili spazi di comunicazione alla caccia del “consenso” di bambini e ragazzi. E non possiamo dimenticare, in questo quadro, la nutrita scuderia di Geronimo Stilton decine di titoli tradotti in decine di Paesi, a incarnare un fantastico tutto giocato sul piano del mercato principale risposta del made in Italy alla globalizzazione anglo-americana del genere. Parola d’ordine di tutti questi fenomeni editoriali, l’intrattenimento, collante delle incursioni massmediatiche nel campo del libro e dei prodotti culturali per ragazzi ad opera delle multinazionali, frontiera liquida capace di trattenere oggi immaginazione e fantasia entro enclave pacificate e ipercontrollate.
Se di ansie “ecologiche” e attenzioni critiche non ci fosse bisogno dovremmo considerare meramente retorici, e pertanto non degni di attenzione, gli appelli degli autori contemporanei a immaginare, a non smettere di sognare; come fa, ad esempio, Axel Hacke dando voce a Re Dicembre, personaggio che proviene da un mondo parallelo e abita dietro uno scaffale; il minuscolo filosofo ci invita a riflettere sui rapporti tra crescita e fantasia e, seppur con qualche velatura di inattualità, su quelli ancor meno scontati, tra conoscenza e immaginazione:
Se è vero quel che mi racconti... ecco, io me l'immagino così: all'inizio avete tutte le possibilità, e ogni giorno che passa ve ne tolgono un paio. Quando siete piccoli avete una gran fantasia ma sapete molto poco. E siccome è così, dovete usare la vostra immaginazione per ogni cosa. Com'è che la luce arriva nella lampada e le immagini nel televisore; vi immaginate che sotto le radici degli alberi vivano dei nanetti, e come dev'essere stare in piedi sulla mano di un gigante. Poi diventate più grandi, e quelli ancora più grandi vi spiegano come funzionano una lampada e un televisore. Allora imparate che non esistono né nani né giganti. La vostra capacità di immaginare si restringe sempre più man mano che le vostre conoscenze aumentano.[8]
O dovremmo non dar credito ad appelli com’è quello di Sylvaine Nahas, che narra del piccolo Nicolò, che durante il giorno s'immerge in fantasticherie e sogna un unicorno dal corno d'oro, di cui però tutti gli adulti negano l'esistenza, tutti fuorché il nonno che invece lo esorta:
Cercalo Nicolò, con colori e pennelli. Sotto le tue mani lo vedrai comparire. Cercalo con questi scalpelli, e lo troverai nel legno e nelle pietre. Cercalo con il flauto o il tamburello, e nella musica sentirai il suo galoppo. Cercalo nei libri che leggi o che sfogli. Dietro una pagina, un giorno ti apparirà. Perché nei tuoi sogni, l'unicorno dal corno d'oro esiste. Nella tua fantasia, egli cavalca a briglie sciolte. Nel tuo cuore, fa mille capriole. Non smettere mai di cercarlo, Nicolò. Anche da grande non smettere mai di sognare.[9]
Ma, sappiamo bene, non possiamo permetterci di abbassare la guardia in tema di immaginazione finché – come ci ricorda Uri Schulevitz che, come altri narratori delle vicende del popolo ebraico, contribuisce con un albo di grande livello testuale e iconografico ad alimentare il già consistente repertorio di storie sul binomio sopravvivenza/fantasia – questa facoltà considerata di solito distante dalla realtà e dalle esigenze quotidiane può, molto “praticamente”, aiutare a vivere. Succede ne La mappa dei sogni, una storia “vera”, ambientata nell’immediato dopoguerra in Turkesan, dove la famiglia dell’autore è fuggita dopo il bombardamento di Varsavia, ed è proprio una banale carta geografica, riportata a casa dal papà scrittore al posto della attesa cena, a trasportare lontano un bimbo affamato, lontano dalla fame e dalla miseria.[10]
A non smettere mai di sognare ci incitano queste, come tante altre storie contemporanee. Ma non è forse questo il suggerimento che le fiabe danno da sempre? Perché, come continua a ripeterci la fiaba, è necessario immaginare se si vuole cambiare la realtà, come succedeva “molto tempo fa quando il desiderio poteva ancora trasformare i sogni in realtà”,[11] secondo un itinerario di gratificazione che è l’essenza stessa della fiaba di magia e che rimanda all’immaginazione – dispositivo mentale intrinsecamente legato al desiderio – e all’utopia, in particolare a quello “schema narrativo popolar-utopico” attraverso il quale si compie la trasformazione della propria vita migliorandola.[12]
Nella fiaba e nella narrativa contemporanea per l’infanzia la rappresentazione della soddisfazione del desiderio individuale e collettivo è sovente un percorso contorto, ambiguo, spesso ambivalente, costellato di pericoli, è una ricerca durante la quale il desiderio, talvolta, viene posto nelle condizioni di implodere sotto il peso di enormi condizionamenti;[13] non meno complesso è il dispiegarsi dell’immaginazione, attivata dal desiderio umano di incidere sulla realtà, di modificarla a proprio vantaggio per ricavarvi un luogo dove vivere meglio, una dimensione protetta in cui poter esprimere la propria individualità o la propria affinità collettiva, i propri sogni di sicurezza, potenza, felicità.
Di questo versante, tra gli autori contemporanei, forse nessuno più di Gianni Rodari si è spinto a sondare le asperità, arrivando a quell’assimilazione tra fiaba e utopia che è il punto nodale della sua opera; così facendo, nel pieno degli anni Settanta, egli ha saputo suggerire, sul tema, argomenti che si sono avvicinati ai più avanzati risultati della ricerca psico-pedagogica, che in quegli anni aveva proceduto molto sul terreno della conoscenza della facoltà immaginativa, mostrandola nelle sue molteplici e indissolubili relazioni con la realtà. Se sembra trascorso un secolo dal 1972, quando Rodari era costretto a interrogarsi sull’utilità delle fiabe e conseguentemente della fantasia – in un contesto sociale e culturale nel quale questi interrogativi apparivano tutt’altro che peregrini – non può sfuggire l’attualità degli argomenti portati a loro difesa, soprattutto quando egli veniva a parlare dell’immaginazione e del ruolo del fantastico, delineando per questi concetti un articolato orizzonte sul quale giocare realtà e cambiamento, azione e futuro.
Io penso che l’immaginazione infantile abbia bisogno delle nostre cure almeno quanto ne ha bisogno la curiosità scientifica; che la fantasia sia elemento fondamentale di una personalità completa; che l’esperienza del meraviglioso, dell’avventuroso, del comico, dell’umano che le fiabe possono offrire al bambino sia un’esperienza utile alla formazione della sua personalità. La società vuole da mio figlio, immagino, un buon tecnico, un diligente esecutore, un uomo pratico e concreto, e non le interessa che egli si appassioni alla musica o alla letteratura, alla storia o alla politica; giudica dannosi e pericolosi i suoi sogni: insomma, non sa che farsene della sua immaginazione e fa il possibile per amputargliela, con una lunga operazione chirurgica che si fa, generalmente, nella scuola. […] Da questo punto di vista la fiaba […] mi sembra invece uno strumento prezioso: nutrendo la capacità di immaginare, mobilitando le risorse della fantasia infantile, essa non distoglie il bambino dall’osservazione e riflessione sul reale, dall’azione sulle cose, ma fornisce all’osservazione, alla riflessione, all’azione una base più ampia e disinteressata; crea spazio per altre cose che “non servono a niente” come la poesia, la musica, l’arte, il gioco, cose che riguardano direttamente la felicità dell’uomo e non la utilizzazione di una qualsivoglia macchina produttiva. […] Ed ecco la fiaba pronta per darci una mano a immaginare il futuro che altri vorrebbero semplicemente farci subire.[14]
Nella Grammatica della Fantasia, testo che è, nello stesso tempo, progetto e sistematizzazione di tutta una poetica, Rodari precisando i punti di riferimento della sua ricerca, cioè il romantico Novalis (in particolare il Frammento n. 1095), i surrealisti, e i filoni più creativi della teoria della letteratura (lo strutturalismo in particolare) illustra, con una dovizia di esempi senza precedenti e con una sintesi mirabile, quell’approccio tutto personale alle storie e alla loro capacità di dare senso alla vita che ne hanno fatto uno dei padri della contemporanea letteratura per l’infanzia. La magia per Rodari è infatti tutta compresa nella dimensione delle storie; si identifica con l’immaginazione creativa e sociale e questo elemento consente alla sua proposta fantastica di non non essere fine a se stessa, ma di avere la capacità di “mordere” la realtà.
Molto opportunamente, per queste caratteristiche, l’opera dello scrittore di Omegna, è stata accostata, nell’ambito della letteratura nazionale, alla lezione di Calvino per il quale “ragione e immaginazione, fiaba e realtà, moralità e fantasia invece di essere termini tra loro oppositivi, come le buone storie letterarie ancora c’insegnano, appaiono le tante facce di uno stesso sistema”; mentre al di fuori dei confini del Novecento “è stata rapportata alle combinazioni di razionalità e fantasia proprie degli illuministi francesi, i contes pholosophiques di Voltaire e Diderot, l’impasto di ideologia rivoluzionaria e di funambolismo verbale dei surrealisti”.[15]
Questo riferimento alla “concretezza fantastica” rodariana al suo “realismo magico”? ci introduce nel cuore di quell’imperituro luogo comune che recita la profonda distanza tra immaginazione e realtà e che ha affaticato, e talvolta affatica ancor oggi adulti più o meno consapevoli.
Che, nella realtà, sognare non paghi è comunque un concetto stabilmente accampato nella storia letteraria, che ci offre copiosi esempi di protagonisti di fantasticherie alle prese con le pene comminate dal senso comune. Pensiamo, per tornare un po’ indietro nel tempo, al maestro della “pedagogia nera”, che al povero sognante Giannino “bimbo distratto e svagato” che “cammina sempre col naso levato”, “segue le nubi portate dal vento, non guarda mai cosa c’è sul sentiero, non si preoccupa, non ci sta attento”, e per questi motivi è ribattezzato Guard’in-aria fa capitare più di un brutto incidente, per di più sempre corredato dal dileggio altrui.[16]
Ancor oggi è da molti autori confermato il permanere del pregiudizio; basti pensare al povero Peter Fortune, al formidabile decenne inventore di sogni messo in scena da Ian McEwan, del quale si dice che è un bambino “difficile” perché sta zitto, ama stare da solo e nessuno sa cosa gli passi per la mente, una mente che spesso parte per lunghi viaggi in preda a sogni ad occhi aperti. A Peter, tutto questo essere un gran fantasticatore non giova per niente, i grandi lo guardano con sospetto; a casa, grazie ai suoi sogni a occhi aperti, ha continuamente delle noie e, a scuola, lui che è fin troppo abile nel seguire il vorticoso lavorio delle più astruse numerazioni, viene addirittura inserito in un gruppo di bambini che hanno enormi difficoltà in matematica.[17]
La parola chiave “socializzare” dà problemi anche a Nicolò, che come Peter è grande immaginatore e inventore di storie. Peccato che anch’egli non leghi con i coetanei, e che la sua capacità di creare sofisticate bugie lo esponga al rischio, suggerito da un’amica alla mamma, di dover “parlare con uno psicologo”.[18] Sarà forse perché le storie sono, dal punto di vista sociale, potenzialmente pericolose, in quanto espressione di una “voglia di far succedere cose…”,[19] e che questa attitudine, sembrano suggerire i nostri autori, debba avere infine un senso, vada incanalata in una direzione, quella letteraria, dove possa ottenere piena legittimità: infatti crescendo Peter diventerà uno scrittore, e Nicolò si renderà conto, grazie anche all’aiuto di Felice Speranza, autore di libri per ragazzi, che quella tanto vituperata capacità di inventarsi le cose non è un problema, né tantomeno una malattia, perché attraverso la scrittura di un libro “le storie fanno succedere cose diverse!”.[20]
Che “fantasticheria” sia comunque un termine ambiguo e “sofferente” risulta chiaro anche nella letteratura psicoanalitica. Per Freud il sogno diurno o a occhi aperti, è sottoprodotto della vita fantasmatica, in esso prosperano, malgrado gli ammonimenti alla moderazione e alla pazienza che provengono dalla realtà, i soddisfacimenti immaginari di “desideri ambiziosi, megalomani ed erotici”. In quest’ottica, sfiorando il riduzionismo psicologistico del fatto letterario, il padre della psicoanalisi ravvisa come molte creazioni poetiche siano riconducibili al modello dell’“ingenuo sogno a occhi aperti, in cui l’Io è l’eroe di tutte le fantasticherie”.[21] Per Jung è decisiva la distinzione tra “mera fantasticheria” o “immaginazione passiva”, che non produce né conoscenza né trasformazione, e “immaginazione attiva” o “vera”, madre di tutte le facoltà, la cui valorizzazione sarà il marchio più originale del suo sistema, “una via di conoscenza, un metodo di ricerca (e formazione), una sorgente sempre viva da cui attingere nuova linfa per rinnovare la propria ‘scienza’ e addirittura lo sfondo cui ancorarla”.[22]
Una breve digressione, per osservare come psicologia e narratologia abbiano liberato l’immaginazione dalle secche, dando un colpo definitivo ai luoghi comuni sull’enorme distanza tra fantasia e realtà che ci tornerà utile più avanti, quando troveremo nel profondo e insistito intreccio tra realtà e fantasia il cuore pulsante dell’attuale narrativa per bambini e ragazzi è adesso necessaria.
Fin dalla prima metà del secolo scorso importanti studi psicologici hanno insegnato a guardare con attenzione ai rapporti tra immaginazione e realtà, tra fantasia e razionalità, nonostante che questi termini sembrino stare in una sorta di opposizione reciproca, e che questa opposizione motivi addirittura il dualismo del funzionamento psichico individuato da Freud nella contrapposizione tra il principio del piacere e il principio di realtà. Anche se non si può certo accusare il padre della psicoanalisi di non avere tenuto in debito conto le “fantasie”, delle quali, anzi, ha usato la grande potenzialità euristica nello studio delle nevrosi a partire dall’osservazione degli sviluppi e delle soluzioni delle fobie infantili. Fin dal 1907 Freud chiarisce, comunque, i termini del rapporto fantasia-realtà per il bambino, confrontando il suo comportamento nel gioco con quello dell’artista nella fase di creazione poetica. Entrambi, ci dice, creano mondi di fantasia, prendendoli molto sul serio, cioè caricandoli di grossi ammontari affettivi, pur distinguendoli nettamente dalla realtà. Fantasia e realtà si compenetrano nella soddisfazione del desiderio:
Sono desideri insoddisfatti le forze motrici della fantasia, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti.[23]
Ma è soprattutto Lev Semënovic Wygotskij negli anni ’30 del ‘900, a fondare sulla realtà il valore di immaginazione e creatività. Volgarmente, avverte, con immaginazione e fantasia, si chiama tutto ciò che è irreale, “che non s’accorda con la realtà delle cose e che, perciò, non può avere alcun valore pratico. La verità è che l’immaginazione, in quanto fondamento d’ogni attività creativa si manifesta in tutti […] gli aspetti della vita culturale, rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e tecnica. In questo senso, tutto ciò che ci circonda e che è stato creato dall’uomo […] è per intero […] un prodotto dell’immaginazione umana”.[24] E prosegue: “ogni creazione dell’immaginazione si compone sempre di elementi presi dalla realtà e già inseriti nell’esperienza passata dell’individuo [… che] fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia”. A questo proposito fa proprio l’esempio della costruzione fiabesca: essa, dice, prende dalla realtà i propri elementi; è solo la combinazione di questi elementi a risultare fiabesca. Più ricca e varia è l’esperienza dell’individuo, più sarà efficace l’attività creatrice dell’immaginazione. Per questo motivo l’immaginazione tende a lavorare lungo la falsariga dell’esperienza altrui, appropriandosi dell’esperienza storica e sociale degli altri. Poi, affrontando il tema dei meccanismo dell’immaginazione creativa, Wygotskij afferma: “alla radice della creatività sta sempre una insufficienza di adattamento, dalla quale derivano le esigenze, le tendenze o i desideri”.[25]
Vale, insomma, a disciplinare i rapporti tra fantasia e razionalità, la metafora proposta da Guido Petter, che ricordando come le due forme di attività cognitiva prendano avvio insieme fin dal secondo anno di vita (“la razionalità nella forma dell’intelligenza ‘percettivo motoria’; la fantasia [in quella] di ‘gioco simbolico’”) e si mantengano compresenti anche nell’attività adulta, suggerisce la bella immagine degli stivali delle sette leghe.[26]
Questo ci consente di tornare al punto da cui siamo partiti, al cuore cioè della triangolazione tra desiderio, immaginazione e magia e dunque alle fonti della creazione folclorica e letteraria.
La fiaba, esplicando una sua particolare dialettica tra immaginazione e realtà, con la sua capacità di rappresentare, in modo fantastico e realistico al tempo stesso, le fondamentali pulsioni che muovono l’agire umano, sembra essere il dispositivo più efficace a mostrare le potenzialità di questa triade. È indubbio che questa caratteristica conferisca al genere fiabesco la capacità di essere una “spiegazione generale della vita”;[27] infatti, la fiaba ci insegna a coltivare il desiderio per poter superare gli ostacoli, ed è anche grazie a questa peculiarità di muovere dai desideri più profondi e più veri che essa può rimanere attuale, nonostante tutto nella realtà storica e sociale sia in continuo cambiamento e trasformazione.
È il desiderio, che sostanzia la fabulazione dei racconti di magia e di molte storie contemporane, il motore attraverso cui l’esperienza magica indotta dall’immaginazione riesce a trasfigurare la realtà. Il meccanismo è ben rappresentato in un romanzo di Silvana Gandolfi, dove la veneziana Elisa racconta la prodigiosa metamorfosi in tartaruga della nonna materna, una bizzarra pittrice ed ex attrice. Elisa si chiede come la nonna abbia potuto trasformarsi, è forse stato il pettine di tartaruga trovato per strada a provocarla?
"È magico?” chiesi trepidante.
"Non credo, ma mi ha fatto pensare alle tartarughe. Non ho più smesso di pensare a loro”.
"E pensare alle tartarughe ti ha fatto diventare così?"
"Era un pensare speciale. Molto intenso. Tanto intenso che non sapevo di pensare"
[...] Quindi il pettine non era magico. Le aveva dato solo l'idea, lo spunto per la nuova metamorfosi. L'immagine iniziale. La forza per trasformarsi, la nonna l'aveva attinta dentro di sè, era racchiusa nel suo intimo.[28]
Qui, la magia che tanto intriga, sta in una forza speciale dell’immaginazione, attivata dall’intenso desiderio di trasformazione di un’esistenza costretta entro limiti angusti, dalla volontà di un essere umano di porsi alla ricerca di una nuova dimensione di sé. Come ha scritto Jack Zipes, nelle storie questa magia sarà vista come parte della nostra tendenza immaginativa e insieme razionale a creare mondi nuovi che consentano uno sviluppo autonomo delle qualità umane.
La magia nelle storie (se di magia si tratta) sta nel mostrare alle persone e alle creature ciò che veramente sono e, si potrebbe aggiungere, nel mostrare loro quello che sono realmente e realisticamente capaci di ottenere.[29]
Come non richiamare, in questa luce, i “rituali magici” di Colin cugino di Mary nel Giardino segreto posti in essere con esito taumaturgico in una fase ormai avanzata della sua guarigione. La filosofia del will to believe, con il volere fermamente ciò che si desidera, costitutiva del pragmatismo magico di William James, sul cui sfondo è obbligatorio collocare l’orizzonte filosofico della Burnett, può essere un utile tassello interpretativo ai nostri fini. Infatti, la vera magia della natura di cui gode il giardino, come renderà evidente Colin attraverso i suoi rituali, consiste solo nel saperla vedere:
Ogni mattina, ogni sera e spesso anche nel resto della giornata quando me ne ricordo, mi dico: ‘la magia è dentro di me! La magia mi fa stare meglio! Diventerò forte come Dickon, proprio come lui […] Questo è l’esperimento […] Se lo faremo tutti i giorni regolarmente, come i soldati fanno le loro manovre, vedremo quali saranno i risultati e scopriremo se l’esperimento riesce. Per imparare le cose bisogna ripeterle tante volte e rifletterci sopra finché non rimangono per sempre in testa, e credo che le cose funzionino così anche per la magia. Se cominci a chiederle di venire da te per aiutarti, diventerà parte di te, rimarrà per sempre e darà dei risultati.[30]
Dal punto di vista psicologico, la magia è stata definita come credenza nell’efficacia di gesti, pratiche, comportamenti atti a esercitare un controllo sulla natura fisica e psichica[31] (è stata dunque rapportata a un desiderio di protezione e di dominio); se è così, questa credenza ha radici in quel meccanismo riconosciuto da Freud già nel 1917, a partire da Totem e tabù, come fondante dell’atto individuale di potenza che promana dal credere, dal guardare in modo esclusivo ai propri desideri e bisogni.[32]
Questa assimilazione egocentrica[33] – concezione peraltro sottoposta a serrata critica da parte di Jerom Bruner – che caratterizzerebbe il periodo iniziale del pensiero infantile, costituisce anche il fondamento del lavoro di Jean Piaget, e in questa prospettiva allo psicologo ginevrino siamo debitori di una approfondita classificazione del “pensiero magico” infantile, la cui origine egli ravvisa nella “partecipazione”, ovvero nel rapporto che il pensiero primitivo percepisce fra due fenomeni sebbene tra di essi non esista alcun legame reale; la magia sarebbe, di conseguenza, l’uso che l’individuo crede di poter fare di tali rapporti in funzione di modifica della realtà.
Partiamo da qui per verificare quanto sia presente e importante questa forma di magia, quante volte e come si realizzi nella letteratura per l’infanzia il mondo magico che abbiamo finora richiamato.
Se tu vuoi un amico addomesticami!
L’attuale narrativa per l’infanzia non è avara di opere tramite le quali è possibile seguire i suggestivi intrecci tra immaginazione e magia. Per far ciò è necessario entrare in una “zona grigia”, in bilico tra realtà e fantasia – e in termini di storia letteraria andare al cuore della strategica dicotomia tra ideale e reale, tra realismo e fantastico – nella quale sembrano smarrirsi gli ordinari contrasti rimandati dalla percezione e si aprono dimensioni di senso che ci conducono a saggiare tutta la complessità e la fecondità del concetto di “irrealtà”. In questa terra di confine, prossima al fantastico, non ci sarà la fiaba, collocata stabilmente in un altro mondo, quello del meraviglioso, come hanno messo in evidenza molti studiosi, poiché essa “tratta di ‘meraviglie’ [e] non può tollerare alcuna vernice o meccanismo tale da far balenare il sospetto che l’intera vicenda in cui esse hanno luogo, sia finzione o illusione”.[34]
Nelle caratteristiche di queste costruzioni “immaginifiche”, in questo intrico di reale e fantastico, vale la pena muoversi per verificare quale statuto abbia la realtà che ne deriva. Occorre chiedersi quanto queste costruzioni attingano all’ordinaria realtà, quanto se ne distacchino, e più oltre, quale sia il loro significato, il loro senso, e quanto di questo senso esse riversino sulla realtà, come esse riescano – ammesso che ci riescano – a modificarla e riorientarla e ad aggiungervi valore. Con ciò risponderemo anche alla domanda chiaramente retorica da cui siamo partiti: per quali motivi una facoltà fondamentale come l’immaginazione sia ancora, e soprattutto oggi, da coltivare fin dalla più tenera età.
Riprendiamo dal già citato romanzo di McEwan, da quell’Inventore dei sogni, che ci ha già dato da pensare quando abbiamo accennato alla “fantasticheria”, facoltà che qui opera con gran dispiego di mezzi e che ci immette in un’anticamera di quei “mondi possibili” la cui consistenza intendiamo saggiare. Peter Fortune ci è già noto, è il protagonista di tutte le storie che presenta questo romanzo; un bambino che ci viene descritto come un individuo “difficile” in quanto fortemente dotato della facoltà di fantasticare. Ma quali sono le storie fantastiche che Peter vive grazie a questa sua speciale attitudine? Prendiamo la battaglia che il ragazzo ingaggia con le bambole della sorella un esercito dagli occhioni vitrei azzurrissimi e dai corpi di tutti i colori, capitanato dalla perturbante Cattiva, che improvvisamente si anima e rivendica il diritto di traslocare e occupare la stanza da letto del ragazzo e chiediamoci che cosa ha preparato questa avventura. La risposta non può essere che la precipua attitudine di Peter a osservare, a fissare l’attenzione sulle persone e sulle cose che lo circondano, a rapportarsi ad esse con l’immaginazione, facendole in essa interagire. Insomma, si tratta della capacità, affinata da Peter, di interessarsi ai “destini” e alla condizione umana, la stessa facoltà che, ha evidenziato Paul Ricoer, svolge una parte essenziale nel procedere del pensiero narrativo. In questo frangente l’attenzione alla condizione e alla sorte delle umanissime bambole è maturata negli anni in cui Peter ha coabitato nella stanza con Kate, avendo davanti agli occhi tutti quei giocattoli, stipati intorno al letto della sorella.
Erano una diversa dall’altra, ma una cosa in comune l’avevano: quello sguardo fisso, arrabbiato da pazze. In teoria avrebbero dovuto essere dei neonati, ma gli occhi le tradivano. I neonati non guardano in quel modo nessuno. Passando accanto alle bambole, Peter si sentiva scrutato e, uscendo dalla stanza, sospettava sempre che si mettessero a parlare di lui, tutte e sessanta.[35]
In questa lotta, come a una bambola a lungo maneggiata, a Peter verranno sfilati agli arti, che si adatteranno perfettamente a quelli mancanti alla Cattiva, e sulla sua testa non rimarrà che uno sparuto ciuffo di capelli; il ragazzo rischierebbe di finire i suoi giorni su uno scaffale di libreria se non arrivasse Kate a “salvarlo”, per “trovarlo sdraiato sul letto che gioca con le sue bambole, tutte le bambole, che le sposta e fa anche le voci”.[36] Con questo brusco richiamo alla realtà, che il narratore affida al diverso punto di vista del personaggio della sorella, si torna alla normalità, e ciò avverrà anche nelle altre storie dell’Inventore, il passaggio dalla fantasia alla realtà si consuma con una sorta di naturalezza, la stessa con la quale si sono aperti anche gli scenari fantastici.
L’inventore dei sogni è opera rappresentativa di quel produttivo corpus di opere che ci interessano, e che sembrano adattarsi perfettamente alla imprescindibile definizione di fantastico introdotta nel 1970 da Tzvetan Todorov in La letteratura fantastica, definizione allestita in risposta a eventi che ci colgono impreparati, quando gli avvenimenti narrati ci mettono di fronte a fatti inspiegabili sulla base delle leggi ordinarie che governano il nostro mondo e ci portano a fornire come uniche spiegazioni possibili, da un lato l’illusione dei sensi o il prodotto dell’immaginazione, dall’altro la realtà del fatto accaduto e la consapevolezza dell’esistenza nella realtà di leggi che ci sono ignote.
Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.[37]
Da questa “esitazione”, felicemente individuata dallo studioso strutturalista è indispensabile partire, intorno ad essa è necessario scavare per alimentare i nostri scopi. Questa intuizione è chiave di lettura essenziale, anche se, non possiamo ignorarlo, studi successivi hanno assai ridimensionato, se non la portata di questa intuizione, l’impianto classificatorio todoroviano del fantastico spostando in avanti gli esiti della sua riflessione, soprattutto riguardo al correlato concetto di realismo; ma questa è un’altra storia che si segnala all’approfondimento operato in alcuni recenti saggi che hanno indagato l’odierno status della mimesi narrativa.[38]
Peter è anche protagonista di altre vicende nelle quali la modalità di passaggio alla dimensione fantastica rende ancora più esplicito il meccanismo che sovrintende questo elementare atto di magia attivato dall’immaginazione. Il vecchio gatto William è il quinto componente della famiglia, per la cui pigrizia Peter nutre un sentimento ambivalente: da un lato, quando al mattino è costretto a uscire di casa per andare a scuola e lo assale il gelido vento di tramontana, ne invidia la condizione di privilegio di poter rimanere solo al caldo, libero da tutti quei “ridicoli esseri umani” – una condizione che sperimenterà, non senza subirne anche le spiacevoli conseguenze, in un’altra occasione, quando con la pomata svanilina, che un po’ tutti i bambini almeno una volta hanno desiderato di possedere, farà sparire tutti i componenti della famiglia – dall’altro patisce per l’abbandono dell’orgogliosa difesa del territorio che il gatto, complice l’incalzante processo di invecchiamento, lascia in preda allo scorrazzare dei gatti del vicinato. Proprio con uno di questi, il più prepotente, William si prenderà una solenne rivincita, il suo ultimo momento di gloria, grazie allo “scambio di pelle” che Peter gli regalerà, in virtù di una di quelle sue fantasticherie che lo porteranno a vestirne i panni, nei quali entrerà come in un guanto. Che questa “comunione” sia uno degli interessi principali di Peter non c’è dubbio; infatti, spesso gli “piaceva mettersi all’altezza di William e poi andargli vicino vicino con la faccia a guardare la sua, quella faccia straordinaria diversa e bellissima […] e gli occhi verde chiaro con quelle fessure strette come porte socchiuse su un mondo nel quale Peter non sarebbe mai potuto entrare”.[39] Ma la magia si compie e il bambino è tutt’uno col gatto, è proprio un Gatto: può vedersi i baffi spuntare dai lati della faccia e sentire, da dietro, la coda, ha il passo leggero e la pelliccia gli dà la sensazione di comodità che gli darebbe un vecchio maglione di lana.
Sulla base del meccanismo dell’entrare nei panni degli altri si articola anche la storia che vede Peter rapportarsi a Kenneth, il piccolo figlio di zia Laura, venuta a vivere per un po’ con la famiglia Fortune; il bimbo è un vero e proprio “disastro”, in grado di occupare con i suoi oggetti la casa e di trasformare l’ora del pasto in uno spettacolo da voltastomaco. Qui sono la bacchetta magica e il libro degli incantesimi di Kate a muovere Peter a maggiore comprensione per il piccolo: si ritroverà infatti egli stesso piccolo e impotente in balia delle cure dei grandi di famiglia, tanto che quando le identità torneranno a giocare il loro ruolo, Peter avrà cambiato completamente idea sul mostro, così da dover confessare tutto il suo interesse e la sua simpatia per il bambino.
L’elemento centrale di queste storie, ciò che vivacizza il plot, dal diventare gatto di Peter al finire al posto del piccolo Kenneth, il suo mettersi nei loro panni, guardare la vita con i loro occhi, condividere le loro sensazioni, provare le loro emozioni, è il ben noto meccanismo dell’empatia, abbondantemente utilizzato anche dal lettore.
Come ci ha insegnato Edith Stein allieva di Husserl e fautrice dell’analisi fenomenologica quale metodo di fondazione ultima della realtà, in uno studio calato nell’ambito del dibattito sull’idealismo posthegeliano e della ricerca di un nuovo realismo l’empatia (Einfülung) è fondamentalmente un meccanismo di comprensione dell’altro da sé, che come tale è in grado di farci cogliere la realtà esterna in un orizzonte pienamente intersoggettivo. Non è questa la sede per seguire i percorsi impostati dalla Stein, se non per rilevare come la sua ricerca sottolinei con insistenza la differenziazione tra empatia e immedesimazione, allo scopo di preservare l’autonomia dei soggetti coinvolti e rendere ancora più pregnante la fondazione della realtà attraverso quello che è un atto di immaginazione, in una prospettiva non solipsistica, ma collettiva, intersoggettiva.[40]
L’innovazione apportata da questo approccio al tema della comprensione di azioni, intenzioni ed emozioni altrui ha trovato oltre che nelle speculazioni di altri filosofi della scuola fenomenologica e nell’opera di Merleau-Ponty conferme in anni recentissimi grazie alle neuroscienze e alla scoperta dei neuroni specchio, che in qualche modo avvalorano la valenza intersoggettiva del meccanismo di comprensione.[41]
Il meccanismo empatico, che finora in letteratura ha interessato prevalentemente chi si occupava di teoria della ricezione del testo da parte del lettore, sembra essere arrivato, con le opportune trasfigurazioni, agli onori del protagonismo in romanzi recenti. Questa facoltà è vista, ad esempio, come il “dono” di cui gode Po, principe di uno dei Sette Regni che sostanziano la geografia del recente romanzo di Kristin Cashore, un “dono” però difficile da gestire e, soprattutto, da confessare: percepire le persone, quando sono vicine, sentire “i loro pensieri e i loro sentimenti, [avvertire] i loro movimenti, i loro corpi, e la loro energia fisica”[42] può essere una facoltà così intrusiva da presentare come un vero e proprio pericolo chi la possiede.[43]
Ci sono invece doni, come quello di riuscire a stare in perfetto rapporto con gli animali, che Spider, lo scacciacorvi messo in scena da Dick King-Smith, possiede in quantità fuori dall’ordinario, doni che compensano mancanze e consentono anche a un idiot savant come lui, di rivestire un ruolo, di trovare “posto” nella complessa architettura sociale che governa la grande fattoria nello Wiltshire entro i cui confini si svolge tutta la sua breve vita.[44] Nelle sue modalità di relazione con gli animali che incontra nell’incontaminata campagna inglese, Spider sembra legato da una sorta di affinità elettiva con il Piccolo Principe quando questi, volto alla ricerca degli uomini e di amici, incontra la volpe e scopre il concetto di “addomesticamento”. La capacità di “creare dei legami”, la paziente tessitura dei rapporti con gli animali, la condivisione di cibo ed emozioni, o semplicemente la profondità di uno sguardo privo di intenzioni, e in particolare lo stabilire una profonda sintonia proprio con una volpe animale tra i più selvaggi che abitano la campagna attraverso un percorso che sembra adattarsi alla lettera al rituale dettato dalla volpe filosofa di Saint-Exupery,[45] fa di Spider un novello Piccolo Principe, goloso di esplorare la realtà e di conoscere le molte cose che la sostanziano, con la inconscia consapevolezza che “non si conoscono che le cose che si addomesticano […] Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”[46]
Su versanti diversi da quello filosofico, entro il quale si muove la Stein, psicologia cognitiva e narratologia, appuntando le loro analisi intorno al concetto di pensiero narrativo, non ci hanno d’altra parte ampiamente informati di come la condivisione di “storie”, che produciamo fin dalla nascita, grazie a una predisposizione innata alla narrativa, sia la via maestra nella direzione di creare e ricreare l’identità? Attraverso le storie approfondiamo il senso del “sé” e contemporaneamente il senso dell’”altro”, secondo modalità cognitive atte a produrre significato dall’esperienza, passando attraverso l’identificazione con i personaggi e l’empatia con le loro emozioni.[47]
In un recente pamphlet allestito in difesa della letteratura, Tzvetan Todorov, pur non citando espressamente il fenomeno dell’empatia, ce lo presenta nella sua essenza come elemento centrale del fatto letterario. Attraverso la narrativa, ci dice parafrasando Kant, realizziamo un cammino che conduce verso la nostra piena umanità: pensare mettendosi al posto d’ogni altro:
Pensare e sentire adottando il punto di vista degli altri, essere umani in carne e ossa o personaggi letterari, è il solo modo per tendere verso l’universalità, permettendoci così di compiere la nostra missione.[48]
Cambiare impercettibilmente la realtà
Ma vediamo come, partendo da La ruota degli elfi di Janet Taylor Lisle, romanzo di un’autrice di grande valore nel panorama contemporaneo, fondazione del sé e fondazione della realtà si possano articolare in una prospettiva sospesa tra realismo e fantastico.
La solitaria Sara-Kate attende in assoluta segretezza alla cura di una madre malata e incapace di occuparsi di sé e degli altri. Del padre, che forse è in prigione, non sappiamo più di quanto con poche parole dichiara Sara-Kate: “è sempre in viaggio”, ci dice e tanto basta per spiegare il comportamento della madre, che non esce mai di casa, tanto che il luogo è diventato ormai fatiscente e stridente in contrasto con le curate dimore dei vicini. Solo il villaggio degli elfi, meticolosamente descritto dalla ragazzina a Hillary, la bambina che abita nella casa confinante, e situato nella parte più trascurata del giardino, sembra riscattare il degrado che lo circonda. Qui il piccolo popolo ha compiuto il miracolo, nell’angolo abbandonato ai rifiuti, tra cardi spinosi ed erbacce, nel fango, tra vetri rotti, avanzi di fil di ferro e di pezzi di corda, vecchi copertoni buttati qua e là, pezzi di motori di auto e una lavatrice rovesciata su un fianco, ha costruito un villaggio di casette, un pozzo, una piscina e, addirittura, una ruota panoramica. Un luogo ideale per l’agire di quella magia promanante dall’immaginazione, alla portata di tutti, altrove più prosaicamente chiamata fantasia, in grado di creare un formidabile interesse intorno al sogno di una bambina sola e trasandata e di attrarre attenzione e amicizia. Qual è, dunque, il potere speciale della magia?
La magia, anche se uno non ci crede, può cambiare impercettibilmente la realtà. Si muove invisibile nell’aria dissolvendo i comuni punti di vista e permettendo a nuovi modi di vedere le cose d’insinuarsi segretamente, silenziosamente, come un gatto randagio attraverso una siepe.[49]
Eccoci dunque dentro il meccanismo di straniamento, di fronte al momento dell’”esitazione” che coglie Hillary all’annuncio dell’esistenza del piccolo popolo e alle accurate descrizioni fornite sull’organizzazione della vita di villaggio. Un mondo in piena regola ricostruito con filologica accuratezza. Si tratta di credere a una realtà fuori dell’ordinario, ma quale miglior modo per crederci di quello di far galoppare l’immaginazione (“mettiti al posto di un elfo”[50] dice Sara-Kate a Hillary), accovacciandosi, ad esempio, accanto alla Ruota con gli occhi al livello del sedile più alto, in modo da rendersi conto di come poteva apparire il panorama agli occhi di un elfo.
La nozione di irrealtà che qui si produce al contrario di quella comunemente intesa in termini di negazione o disgregazione del reale, o come sottolinea Tolkien nelle dense pagine del saggio “Sulle fiabe”, di ”estraniazione dal Mondo Primario”, di “libertà dal dominio del ‘fatto’ osservato” è in sintesi una forma “acuta” di conoscenza, posta in delicato equilibrio narrativo tra immaginazione e realtà, quasi un senso in più, che ha la capacità di mediarci, con maggior forza di tante descrizioni realistiche e “documentarie”, le realtà del disagio, del degrado, della fiducia, dell’amicizia. Seguendo fino in fondo l’analisi di Tolkien, è ciò che sembra conferire “l’intima consistenza della realtà”, insomma, l’Arte, “legame operativo tra Immaginazione e risultato finale, vale a dire Subcreazione”. È ciò che rende la Fantasia “non già una forma inferiore, bensì più elevata di Arte, anzi la forma più pura (o quasi pura) di essa, e pertanto, quando la si raggiunge, la più pregnante”.[51]
Il percorso si snoda dall’irrealtà dell’esistenza degli elfi alla realtà della loro esistenza: piano piano grazie alle spiegazioni di Sara-Kate e ai molti dettagli che si sommano, quel mondo misterioso, pur rimanendo invisibile, diventa sempre più reale per Hillary “che ora riusciva quasi a vedere le pallide facce spiare fra gli arbusti, apparendo e scomparendo in un baleno”.[52]
Il rapporto che si instaura tra le due bambine dura l’arco di pochi mesi, quanto basta a far precipitare l’insostenibile situazione familiare di Sara-Kate e, come lei ha previsto, ad allontanarla dalla madre che, “presa di mira” dai servizi sociali, è destinata all’internamento in una casa di cura dalla quale probabilmente non uscirà più, mentre la figlia sarà affidata ai parenti. Solo il villaggio degli elfi, miracolosamente scampato allo smantellamento del mobilio e delle suppellettili, al rifacimento della casa di Sara-Kate e al via vai di curiosi e acquirenti che si aggirano per il giardino, rimarrà per Hillary un indelebile tramite con l’amica, l’unico elemento ad avere il potere di “restituirgliela tutta intera”.
Anche il regno segreto e immaginario creato nel fitto del bosco – “in un punto in cui “la sanguinella e la cercide giocavano a nascondino tra le querce e i sempreverdi, e dove il sole faceva filtrare i suoi raggi dorati attraverso i rami diffondendo una luce chiara ai loro piedi” – da Jess, ragazzino che ama lavorare di fantasia e Leslie, coetanea anticonformista, il reame Terabithia narrato da Katherine Paterson, è anch’esso un luogo che irradia un forte senso di irrealtà. Innanzitutto tiene fuori i “nemici”, persone che nella realtà rappresentano per i due ragazzi il cruccio di tutti i giorni; poi, soprattutto fa dei due i “padroni del mondo”, di quel mondo che risuona, con Narnia, degli echi profondi delle letture di Leslie. Nel boschetto dei pini, il posto preferito dalla ragazza, questo senso di irrealtà è ancora più accentuato, le chiome degli alberi velano la luce del sole e in quella pallida luce, per una sorta di incantesimo, si possono percepire “spiriti” che altrove non sembrerebbero altro che silenzio, un silenzio che spaventa, mentre qui riescono a caricare di sacralità il luogo.
Laddove dovrebbero abitare solo fantasticherie e giochi di ragazzi si insedia e cresce a dismisura la realtà, quella che per palesarsi deve attraversare la lente “magica” della fantasia per potersi in qualche modo purificare, far scivolare le scorie, illimpidirsi, per poter essere colta in tutta la sua purezza. È questo il percorso “iniziatico” che soprattutto Jess intraprende, con l’aiuto della forza e della capacità immaginativa di Leslie; la ragazza “aveva cercato di abbattere i muri della sua mente, facendogli scorgere da lontano il mondo scintillante, vasto, terribile e splendido, eppure così fragile”.[53]
Arrivare a vedere attraverso queste lenti il mondo, conoscere così approfonditamente la realtà delle cose e delle emozioni, non è certo facile, e questa capacità è un punto di arrivo, il compimento di un percorso, è un punto di vista semplice e complesso al tempo stesso; come ci rivela Il Piccolo principe con emblematica sintesi: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.[54] È quell’essenziale che Jess, appassionato di disegno, purtroppo non riesce a esprimere quando prova a metterlo sulla carta, perché la poesia delle cose gli sfugge; avrebbe voluto “con tutta l’anima cogliere la vita palpitante che lo circondava ma […] quando ci provava, questa gli sfuggiva tra le dita, lasciando sul foglio un fossile inanimato”. A Terabithia, forse, ci sarebbe riuscito, perché lì “tutto sembrava possibile”.[55]
In opere come queste, a movimenti di apparente allontanamento dalla realtà scanditi da una penetrazione nei territori del fantastico, consegue come per successivi ingrandimenti un avvicinamento alla realtà, come se si trattasse di una operazione di focalizzazione delle cose che ce le restituisce in tutta la loro complessa determinatezza. Potrebbe sembrare a prima vista paradossale che muovendosi con i mezzi del fantastico si ottenga il risultato di avvicinarsi a una più approfondita descrizione della realtà ma, abbiamo visto prima quanto l’immaginazione, allontanata dagli stereotipi sia una facoltà dalla sorprendente valenza cognitiva.
L’epoca della spettacolarizzazione, che ci vede testimoni, fornisce invece, attraverso la messa in scena della storia operata dai media nient’altro che “de-realizzazione” e “distanziazione”, “si tratti della guerra del Golfo, dei castelli della Loira o delle cascate del Niagara”.[56] L’irrealtà è infatti un prodotto a cui oggi ci hanno abituati i media della sfera audiovisiva prodotto, come ha sentenziato Baudrillard, potenziato e portato alla “soluzione finale” dall’idea stessa del “virtuale” attraverso la trasformazione di tutti i dati, gli atti e gli eventi in pura informazione e quindi attivando, esaurendone tutte le possibilità, “il codice di scomparsa automatica del mondo”[57] una condizione che si produce, come in una operazione da manuale, per progressiva sottrazione di elementi di concretezza (sensoriali, motivazionali, ideologici). In Sol Levante, Michael Critchton, descrivendo la ricostruzione di un omicidio registrato da una telecamera a circuito chiuso, ci mette di fronte esemplarmente alla trasformazione di realtà in irrealtà:
Ogni volta che rivedevo la sequenza, avevo un'impressione diversa. Le prime volte avvertii una tensione, una sensazione voyeuristica, non priva di componenti sessuali. Poi mi sentii sempre più distaccato, più analitico. Come se stessi astraendomi, mettendo una certa distanza tra me e il monitor. E, infine, tutta la sequenza sembrò molto remota ai miei occhi; i corpi, persa qualsiasi connotazione umana, divennero astrazioni, pure sagome che si muovevano in uno spazio buio [...] Riguardammo la sequenza. Ma ormai non sapevo più che cosa stavo guardando."[58]
In questo caso si tratta di produzione di vera e propria povertà gnoseologica, operata attraverso una avanzante “perdità di dettaglio”, un prosciugamento di senso che lascia le cose, gli oggetti, i corpi come dei pallidi riflessi di un mondo che sta ormai al di là della nostra percezione. Sacchi vuoti, afflosciati su se stessi, privi di vita, come immagina possa essere il mondo in pause, al di fuori della sua vista, la piccola Rose, protagonista di Stanare l’animale, e non è certo casuale che, per definire un tale stato, usi proprio un termine “tecnico”, ripreso dalle modalità di funzionamento di un videoregistratore.[59]
In una fulminante poesia di Eugenio Montale raccolta in Ossi di seppia, la scomparsa del mondo oggettivo, “miracolosamente” avvertita da un atterrito soggetto percepiente, è resa con una limpidezza destinata a rimanere insuperata:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo: /
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; e io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.[60]
Come ha notato Italo Calvino, riflettendo su questo componimento, Montale riprende il contatto con la concreta realtà, riaffiora alla superficie del quotidiano, alludendo a uno “schermo”, e a modalità di percezione visiva mediate dal cinema[61], insomma a una delle principali arti finzionali della contemporaneità, alla dimensione della videosfera, dalla quale ormai ogni meditazione sull’irrealtà non può prescindere.
L’abisso dell’irrealtà, che con i suoi vuoti e il suo nulla risucchia cose ed esseri, che atterrisce con la perdita di ogni prospettiva percettiva e che azzera il senso della permanenza in questo mondo, ha attraversato intere epoche letterarie ed è stato, in svariate forme, un leitmotiv della letteratura del Novecento, culminando nella frantumazione del reale da parte del postmoderno in ogni ambito artistico e letterario. Di fronte a questo pericolo sono state attrezzate soluzioni, sono state lanciate scialuppe di salvataggio, agganci a una realtà che potesse avere ancora un senso. Abbiamo visto Montale reagire come “soggettività disperata perché o vittima d’un inganno o depositaria del segreto del nulla”[62], altri, ad esempio i surrealisti o Borges, a questo “sfaldamento” dell’esperienza, a questo “scoloramento” della realtà, al premere del “dubbio ontologico” hanno opposto gli strumenti dell’invenzione fantastica, e proprio su questa linea di potere cognitivo e redentivo dell’arte[63] si collocano a pieno titolo gli esempi di fantastico, qui assunti dalla letteratura per l’infanzia contemporanea come emblematici.
È certamente un atto di coraggio avventurarsi tra gli sconnessi terreni della mimesi contemporanea da parte dei narratori che adottano la cifra del fantastico, dovendo fare i conti con il perturbante, in agguato in quei terreni ancora intrisi dagli elementi costitutivi della realtà[64], e in considerazione anche delle numerose incursioni metaletterarie (marchio del postmoderno) a cui ci ha ormai abituato anche la letteratura per ragazzi. Una per tutte, quella che si compie in Cuore d’inchiostro, laddove Meggie, la cui madre è letteralmente scomparsa in un libro, deve affrontare prove difficili e perfidi esseri a causa del dono ricevuto in dote dal padre, un rilegatore capace di animare i libri che legge ad alta voce.[65] In quest’opera la magia si radica nell’atto bifronte della scrittura-lettura: l’immaginazione creativa non appartiene più solo allo scrittore, altrettanto ne possiede una il lettore, come ci dimostrano i due creativi lettori protagonisti di questa storia, la bambina e il padre capaci attraverso la lettura ad alta voce di dare vita a personaggi delle storie e a consentire passaggi dalla dimensione letteraria a quella reale e viceversa. Con un’abile operazione letteraria, che sembra tradurre in fiction le analisi di Wolfang Iser, la magia (o immaginazione che dir si voglia) transita in quest’opera nell’atto della lettura, distribuendosi dall’autore al lettore attraverso momenti di collaborazione creativa.
Insomma, se è vero che non si può aggirare l’angosciante domanda ("A cosa servono le storie che non sono neanche vere?") che il giovane Harun si pone immergendosi nel mar delle storie, e alla quale tenterà di dare risposta lungo tutto il corso del romanzo, sperimentando il fecondo rapporto che si imporrà tra realtà e fantasia, è altrettanto vero, come ci dimostra la storia di Rushdie, grande metafora della narrativa e delle arti in senso lato, che tutte le realtà anche le più fantastiche possono essere vere.[66]
Una verità che, pur non attingendo sempre ai canoni classici e giocando spesso un tiro alle condizioni di verosimiglianza, gode comunque di un solido statuto, come ci hanno ricordato, da posizioni critiche e disciplinari diverse sia Bruner che Todorov. Non è stato proprio quest’ultimo, nel saggio citato in precedenza a proposito dei risvolti empatici del fatto letterario, partendo dalla nota affermazione di Baudelaire secondo cui “l’immaginazione è la più scientifica delle facoltà” e riprendendo le considerazioni del filosofo americano Rorty sul contributo fornito dalla letteratura alla comprensione del mondo, a definire il suo essere come insuperabile “pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo”?[67]
[1]. Useremo in queste pagine i termini “immaginazione” e “fantasia”, come sinonimi o quasi-sinonimi, pur consapevoli delle differenze, anche profonde, di cui si sono nel tempo caricati i concetti nella tradizione prima filosofica poi psicologica. Per un quadro complessivo su questi aspetti si veda M. Ferraris, L’immaginazione, Bologna, Il Mulino, 1996.
[2]. Cfr. S. Calabrese, W.W.W. letteratura global: il romanzo dopo il postmoderno, Torino, Einaudi, 2005; si veda anche, dello stesso autore, “Narratività oggi”, LiBeR n. 82 (apr.-giu. 2009), p. 68-70.
[3]. M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 47.
[4]. "Noi viviamo in un'epoca che mette in scena la storia, che ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la realtà […] Questa distanziazione, questa spettacolarizzazione non è mai così sensibile come nelle pubblicità turistiche che ci propongono dei tours, una serie di visioni 'istantanee' che avranno la massima realtà solo quando le 'rivedremo' attraverso le diapositive di cui imporremo al ritorno la visione e l'esegesi a un pubblico rassegnato di parenti e amici”, loc. cit.
[5]. Cfr. M. Ende, La storia infinita: dalla A alla Z, Milano, Longanesi, 1990.
[6]. Cfr. S. Rushdie, Harun e il Mar delle Storie, Milano, Mondadori, 1991.
[7]. Italo Calvino, trattando il tema della Visibilità, si pone il quesito di quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale nella civiltà dell’immagine, se l’umanità continuerà a “evocare immagini in assenza” nel momento in cui è inondata da un diluvio di immagini prefabbricate. Interessante la sua proposta di una “possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosofficiente, icastica”, I. Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 92.
[8].A. Hacke, Il piccolo Re Dicembre, Milano, Archinto, 2000, p. 10.
[9]. S. Nahas, L'unicorno dal corno d'oro, Milano, Arka, 2001, p. 27-28.
[10]. Cfr. U. Schulevitz, La mappa dei sogni, Milano, Il Castoro, 2008.
[11]. Come ci dicono i Fratelli Grimm fin dalla prima storia delle Fiabe del focolare, il “Principe ranocchio o Enrico di ferro”.
[12]. Cfr. D. Richter, La luce azzurra: saggi sulla fiaba, Milano, Mondatori, 1995.
[13]. Cfr. R. Pontegobbi, “C’era una volta l’utopia”, in L’immagine della società nella fiaba, a cura di F. Cambi, S. Landi, G. Rossi, Roma, Armando, 2008.
[14]. G. Rodari, “Pollicino è utile ancora”, in Io chi siamo: itinerari fantastici con Gianni Rodari e bambini reggiani, Reggio Emilia, inForma edizioni, 1982, p. 42.
[15]. Alberto Asor Rosa, “Gianni Rodari e le provocazioni della fantasia”, in Le provocazioni della fantasia: Gianni Rodari scrittore e educatore, Roma, Editori Riuniti, 1995. Sulle potenzialità del concetto di “Fantastica” in Rodari segnaliamo, per un approfondimento, i seguenti saggi: G. Petter, “Gianni Rodari e la fantasia: il punto di vista di uno psicologo” in Le provocazioni della fantasia: Gianni Rodari scrittore e educatore, Roma, Editori Riuniti, 1995; E. Catarsi, “La ‘Fantastica’ di Gianni Rodari’ in Gianni Rodari e la letteratura per l’infanzia, E. Catarsi (curatore), Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2002; B. De Angelis, “Fantasia e ‘Fantastica’ in Rodari, Libri e riviste d’Italia, n. 2 (mar.-apr. 2008).
[16]. H. Hoffman,“La storia di Giannino Guard’in-aria”, in Il porcospino ragionato, Milano, Longanesi, 1986, p. 69-73.
[17]. Cfr. I. McEwan, L’inventore di sogni, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1998.
[18]. G. Quarzo, Il libraio sotterraneo, Milano, Salani, 2008, p. 45.
[19]. Ivi, p. 71.
[20]. Loc. cit.
[21]. S. Freud, ”Il poeta e la fantasia”, in Opere: 1905-1908, Torino, Boringhieri, 1972, p. 381.
[22]. M. Barioglio, Nel regno dell’immaginazione: da Jung alla pedagogia immaginale, Bergamo, Moretti & Vitali, 2008, p. 49.
[23]. S. Freud, “Il poeta e la fantasia”, cit., p. 378.
[24]. L.S. Wygotskij, Immaginazione e creatività nell’età infantile, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 23.
[25]. Ivi, p. 48.
[26]. “Fantasia e razionalità sono come le due gambe con le quali cammina la nostra mente; su tali gambe possiamo però infilare degli stivali magici (gli interventi educativi, rivolti sia alla razionalità sia alla fantasia) grazie ai quali esse possono compiere passi assai più lunghi di quelli che compirebbero se fossero lasciate a se stesse, e andare dunque assai più lontano nella strutturazione cognitiva della realtà” (G. Petter, La narrativa a scuola: il lavoro sul testo e l’incontro con l’autore, Trento, Erickson, 2007, p. 23.
[27]. I. Calvino, Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1988, p. 19.
[28]. S.Gandolfi, Aldabra: la tartaruga che amava Shakespeare, Milano, Salani, 2000, p. 95-96.
[29]. J. Zipes, Spezzare l’incantesimo: teorie radicali su fiabe e racconti popolari, Milano, Mondadori, 2004, p. 62
[30]. F.H. Burnett, Il giardino segreto, Firenze, Giunti-Marzocco, 1992, p. 183.
[31]. Cfr. U. Galimberti, Dizionario di psicologia, Torino, Utet, 1992.
[32]. “I motivi che spingono a esercitare la magia sono facilmente riconoscibili: sono i desideri dell’uomo […] l’uomo primitivo ha una straordinaria fiducia nel potere dei propri desideri. In fondo tutto ciò che egli realizza per via magica deve accadere soltanto perché egli lo vuole”. In questo fenomeno, attivo nel modo di pensare animistico primitivo, ma anche nella vita affettiva del nevrotico contemporaneo, è ravvisabile “una sopravvalutazione generale dei processi psichici”, tanto che “il principio che regge la magia […] è quello della ‘onnipotenza dei pensieri’” (S. Freud, “Totem e tabù e altri scritti”, in Opere: 1912-1914, Torino, Boringhieri, 1972, p. 89-91).
[33]. Recentemente, lo psicanalista francese Serge Tisseron, in uno studio sull’immaginazione e sulla civiltà dell’immagine ci ha riportati alla nascita dell’atteggiamento immaginatorio riproponendo il concetto di “stato di soddisfazione allucinatorio” delle prime esperienze del neonato, una sorta di consolazione e di appagamento di desideri e bisogni per via allucinatoria. A cui fa seguito la costruzione della cosiddetta “illusione di onnipotenza” per la quale il bambino “è incoraggiato a credere che non solo le sue rappresentazioni corrispondono al mondo reale, ma che [egli] avrebbe anche la possibilità, immaginando le cose, di farle succedere ‘per davvero’”. E più avanti l’autore definisce l’immaginazione come il potere di “mettere l’immaginario, che è dell’ordine della realtà interiore, al servizio di una trasformazione dell’ambiente circostante” (S. Tisseron, Guarda un po’: immaginazione del bambino e civiltà dell’immagine, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 15 e p. 21).
[34]. J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, Milano, Bompiani, 2008, p. 26. Per una trattazione approfondita dell’argomento si veda anche R. Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza, Napoli, Theoria, 1991.
[35]. I. McEwan, L’inventore di sogni, cit., p. 21.
[36]. Ivi, p. 31.
[37]. T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1988, p. 28.
[38]. Il riferimento è a F. Amigoni, Fantasmi del Novecento, Milano, Bollati Boringhieri, 2004 (soprattutto alla parte introduttiva dedicata alla disamina delle teorie di Todorov e alla ridefinizione terminologica del fantastico), ma anche a F. Bertoni, Realismo e letteratura: una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007.
[39]. I. McEwan, L’inventore di sogni, cit., p. 37
[40]. Cfr. E. Stein, L’empatia, Milano, FrancoAngeli, 1986.
[41]. “Il comportamento degli altri (azioni, comportamenti emotivi) dopo essere stato registrato nei sistemi sensoriali, attiva le nostre rappresentazioni motorie o emotive (viscero-motorie) che corrispondono ai comportamenti osservati. Il significato delle azioni e delle emozioni degli altri è quindi capito perché esso suscita in noi una esperienza che già conosciamo. Una mediazione cognitiva non è indispensabile. Il meccanismo dei neuroni specchio di base permette di capire cosa fa o sente un’altra persona ‘qui e ora’.” (G. Rizzolati, “Noi, attori nella testa degli altri”, Il Sole 24 Ore Domenica, n. 254, 14 set. 2008, p. 41).
[42]. K. Cashore, Graceling, Novara, De Agostini, 2009, p. 158-159.
[43]. All’opposto, non meno imbarazzante per chi ne è vittima e pertanto è vissuto come un “inconfessabile segreto” da Mila, detective protagonista del recente romanzo di Donato Carrisi è il non essere “in grado di soffrire. Di provare empatia, necessaria per comprendere gli altri e, perciò, per non sentirsi soli in mezzo al genere umano” (D. Carrisi, Il suggeritore, Milano, Longanesi, 2009, p. 169).
[44]. Cfr. D. King-Smith, Lo scacciacorvi, Milano, Rizzoli, 2008.
[45]. “Bisogna essere molto pazienti […] In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…” (A. de Saint- Exupéry, Il piccolo principe, Milano, Bompiani, 1991, p. 94).
[46]. Ivi, p. 93-94.
[47]. “Il sé è un prodotto del nostro raccontare e non una qualche essenza da scoprire scavando nei recessi della soggettività […] Senza la capacità di raccontare storie su noi stessi non esisterebbe una cosa come l’identità” (J. Bruner, La fabbrica delle storie: diritto, letteratura, vita, Bari, Laterza, 2006, p. 98). James Hillman affrontando il tema della cura ci dice: "Avere una 'consapevolezza narrativa' è di per sè psicologicamente terapeutico. Fa bene all'anima […] Integriamo la vita come storia perché in fondo alla mente (nell'inconscio) abbiamo delle storie come contenitori per organizzare gli eventi in esperienze significative […] Quando ha avuto una storia che si è andata costruendo fin dall'infanzia, una persona è generalmente in un rapporto migliore con il materiale patologizzato delle immagini oscene, grottesche, crudeli che appaiono spontanamente nel sogno e nella fantasia [...] La mia pratica professionale mi ha [...] insegnato che quanto più la parte immaginativa della personalità è affinata e ricca di esperienze, tanto meno l'irrazionale sarà minaccioso" (J. Hillman, “In margine al racconto” Testimonianze. set.-ott. 2000, n. 413, p. 49).
[48]. E prosegue: .“è per questo che bisogna incoraggiare la lettura con ogni mezzo, compresa quella di libri che il critico di professione considera con una certa condiscendenza, se non addirittura con disprezzo, dai Tre moschettieri a Harry Potter: non solo questi romanzi popolari hanno avvicinato alla lettura milioni di adolescenti, ma hanno anche permesso loro di costruirsi una prima immagine coerente del mondo che, possiamo esserne certi, le letture successive renderanno poco per volta più elaborata” (T. Todorov, La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2008, p. 70-71).
[49]. J.T. Lisle. La ruota degli elfi, Firenze, Salani, 1992, p. 12.
[50]. Ivi, p.26.
[51]. J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, cit., p. 66-67.
[52]. Ivi, p 54.
[53]. K. Paterson, Un ponte per Terabithia, Milano, Mondadori, 2007, p. 207.
[54]. A. de Saint- Exupéry, Il piccolo principe, cit., p. 98.
[55]. K. Paterson, Un ponte per Terabithia, cit., p. 69-70. Il tema della “riproduzione artistica” della realtà è toccato anche da Janet Taylor Lisle in una cruda storia ambientata ai tempi del secondo conflitto mondiale: “L’odore della trementina e dei colori era forte, ma al momento sembrava non ci fosse nessun quadro in esecuzione. All’aperto, Abel aveva sistemato una specie di tavolo da lavoro. Quando misi la testa fuori dallo studio, lo vidi in piedi di fronte al tavolo insieme a Elliot […] Uscii e guardai il dipinto da sopra la spalla di Elliot. – Che cos’è? – domandai. Tutto ciò che riuscivo a vedere era un vortice di blu e gialli, verdi e rosa. E qualcosa di scuro dietro i colori, un’ombra che nuotava in profondità sotto la superficie. – è l’oceano, – disse Elliot. – Non è bellissimo? Raffigura la baia. – Davvero? – Io dipinge oceano! Dal mio cuore! – gridò Abel. Io vedo nell’oceano. Molte cose. […] Elliot si inserì per fare da interprete. – Non è il mondo esterno quello che lui dipinge, è il mondo interiore. Per questo a volte le cose reali ti sfuggono e non le riconosci. Lui dipinge i suoi sentimenti.” (J.T. Lisle, Elliot che disegnava il cielo, Milano, Buena Vista, 2003, p.96-97).
[56]. M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, cit., p. 47.
[57]. Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina, 1996.
[58]. M. Crichton, Sol levante, Milano, Garzanti, 1992, p. 313.
[59]. "Non ho più paura della gente, non mi sbrigo più la mattina per andare ad aprire il portone del palazzo al volo e sorprendere il mondo tutto sgonfiato. Tutto sgonfiato? ha fatto lei. E ho continuato ad affondare, sìtutto sgonfiato, credevo, ma ora non ci credo più, sia ben chiaro, che il pianeta esistesse solo in mia presenza, credevo, ma era quando ero piccola no? ero io che me l'immaginavo, allora volevo sorprendere il mondo senza il motore, con le persone accasciate come marionette e le macchine immobili. Immobili, dici? Sì sì, come quando si mette su pause quando guardiamo un film a casa sua Madame Isis" (V. Ovalde, Stanare l'animale, Roma : Minimun Fax, 2007, p 102).
[60]. E. Montale, “Forse un mattino andando in un’aria di vetro”, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1990, p.42.
[61]. “Questa poesia (databile tra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all’era del cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d’una pellicola, alberi case colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire (“di gitto”) e l’enumerazione evocano una successione di immagini in movimento” (I. Calvino, “Eugenio Montale, Forse un mattino andando” in Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 268).
[62]. Ivi, p. 263.
[63]. Si vedano a questo proposito le parti dedicate all’argomento da F. Bertoni in Realismo e letteratura: una storia possibile, cit., p. 347 e segg.
[64]. “L’incertezza è tra due codici che si escludono l’un l’altro, tra due linguaggi tra loro incompatibili, con regole, strutture e temi propri […] Il fantastico sembra mettere in scena con apprezzabile sottigliezza quell’articolato sistema di investimenti e controinvestimenti, interferenze e informazioni di compromesso che è la psiche umana”. (F. Amigoni, , Fantasmi del Novecento, cit., p. 33).
[65]. Cfr. C. Funke, Cuore d'inchiostro, Milano, Mondadori, 2005; la serie prosegue con Veleno d’inchiostro e Alba d’inchiostro (rispettivamente 2006 e 2008).
[66]. Cfr. S. Rushie, Harun e il Mar delle Storie, cit.
[67]. T. Todorov, La letteratura in pericolo, cit. p. 69.